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Surfney, lo slang del surf, e le surf-adventure

Noi milanesi non usiamo la lingua locale, quella che erroneamente viene chiamata dialetto, per questioni pratiche. La continua immigrazione e conseguente rapida assimilazione nel tessuto sociale meneghino di altre lingue locali, ha portato alla creazione e all’uso di uno slang. Questo, come il cockney londinese, cambia di generazione in generazione dall’epoca del Giovannino D’Anzi (l’autore de O mia bella Madunina). Come con il london cockney, per capirsi, bisogna adeguarsi e sintonizzarsi con i nuovi trend delle nuove realtà con cui si ha a che fare. Sarà per questo motivo che abbiamo una certa facilità con il surfney, lo slang del surf.

Il surf a Milano è presente da quando il surf era agli albori nella stivalica penisola. É dagli 00s, però, che i surfer sono aumentati in maniera spropositata. Parlano uno slang comune tra loro ma non sempre di immediata comprensione per i non-surfer: il surfney.

Capire dove vanno i surfer è sempre complicato. Il surfer non specifica mai il continente e nemmeno la nazione. Né, tantomeno, la città o il paese. Dicono il nome dello spot. I/le surfer non vanno in vacanza ma fanno un surf trip, se vanno fuori nazione. Un surfari se vanno a surfare in diversi spot più giorni in Italia. Se vanno a surfare in giornata partendo molto presto fanno un dawn patrol. Se, invece, il rientro si protrae con ritorno nella city in serata tarda fanno un dawn patrol+gent’s hour. 

Il surfney storpia anche il nome del paese per cui Dian’O sta per Diano Marina, Marina D.C. per Marina di Carrara, ecc. ecc. Se così è già complicato, lo diventa ancor di più quando il riferimento è il nome dello spot. Lo stesso vale per Andorange invece di Andora.

Anche gli idiomi specificatamente tecnici riferiti al surfboard – che viene chiamato gergalmente anche tavola, legno, asse o mezzo – variano da zona a zona, in base al surfney locale. Prendiamo il cavo che assicura il surfboard alla caviglia come esempio. Si chiama leash, ma qualcuno della vecchia scuola lo chiama anche leg rope, alla australiana. Tuttavia, in Toscana, dove alla lingua di Dante tengono a lot, lo chiamano laccetto

La cera che si spalma sul surfboard per avere aderenza si chiama wax ma viene chiamata anche paraffa o waxa e non è insolito che sentiate sempre tra i pale surfer (così vengono chiamati i/le surfer meneghin*) dire bringawaxa che deriva da bringaparaffa – usato nei late 80s –  che sta per porta la wax.

Se si parla di chiusoni ci si riferisce a onde close out (che chiudono rapidamente). Il termine schiumoni o foamy si usa per definire le onde frananti in schiuma quando il mare è attivo. Bombora sta per onde grosse mentre monster mash sta per un’onda fuori set, inaspettata, molto grossa. In questo caso si cita il grido dell’Edoardo Quaglia, risalente a 30 anni fa: «Bella lì, il mostro!».

Avevamo accennato al termine gent’s hour che è l’abbreviazione di gentlemen’s hour che è la surfata serale. In surfney, in Toscana, invece, la chiama calasole.

Sempre stando in Toscana, quando sarete invitati per uno snack o una birretta al Mangia&Tromba: niente paura, si tratta di un dinner vero e proprio. In precedenza era un grosso bus, oggi è adibito a chiosco di panini bisunti aperto a tutte le ore… per cui frequentato da varia ed eventuale umanità e surfer, che dove l’umanità è varia ed eteroclita non mancano mai. Attualmente è un bel dinner in muratura e tutto il resto dove si mangia un ottimo frittino.

Qualora il/la non-surfer riesca distriscarsi con la terminologia e decida di raggiungere il/la surfer una volta in loco dovrà tenere conto di altre cosine che per chi non surfa sono un po’ dure da mandare giù. La giornata è regolata dal calendario delle maree degli spot scelti. Quindi, se la marea è di primo mattino si va a nanna a presto e la giornata si trascorrerà in spiaggia tra più session intervallate alla meglio. Alla peggio, le onde potrebbero essere rovinate dal vento.

In tal caso inizia un eventuale pellegrinaggio alla ricerca di altri spot con conseguente carica/scarica surfboard e wetsuit bagnate che, dopo un po’, inizieranno a puzzare di cane bagnato. La puzza, però, sarà mitigata – o peggiorata – dall’odore di cocco o vaniglia della waxa e dall’odore dell’Arbre Magique appeso allo specchietto retrovisore, per tacere dello smonta e rimonta pinne.

Può essere che per fare prima nel raggiungere il prossimo spot i surfboard vengano infilati alla bell’e meglio nell’interno della macchina o del van, invece che legati approssimativamente sul portapacchi. In certi casi dovrete adattarvi a stare rannicchiati come un contorsionista . 

Ho parlato del portapacchi ma spesso e volentieri – soprattutto se la vettura è a noleggio – il portapacchi con le barre è sostituito dal soft-rack detto anche fast-rack che, in sostanza, sono delle cinghie che vengono montate fast e che servono per assicurare i surfboard da trasportare; si tratta di una soluzione geniale per praticità e immediatezza nel trasporto dei surfboard, però dal momento che queste cinghie sono assicurate passando dal tetto della macchina alle  portiere, vi troverete la cinghia di nylon all’altezza della attaccatura dei capelli pronte a farvi lo scalpo. Per cui, anche in questo caso, siate preparat* a viaggiare raggomitolati e considerate che in caso di pioggia con questo aggeggio con le cinghie che passano dentro e fuori arriverà anche l’acqua, gocciolando in piccole ma continue quantità.

Queste cinghie, inoltre, quando la macchina raggiunge una certa velocità, fanno un baccano simile al ronzio di centinaia di calabroni infuriati.

Considerate, infine, che l’interno della surf-mobile sarà una sorta di sandbox dalla quale affioreranno asciugamani umidi, carte di snack, bucce di banana e rimasugli di frutta secca… già, noi surfer di giorno ci cibiamo solo di snack al cioccolato e caramello, banane e frutta secca. Nella federazione in cui siamo stati inglobati, la FISW, a quanto pare, i dirigenti sono più raffinati in quanto alimentazione.

Articolo di Francesco Aldo Fiorentino