Mala tempora currunt. Sgombriamo subito il campo (di battaglia): non siamo guerrafondai. Né, tantomeno, esteti della guerra e deprechiamo gli spargimenti di sangue! Peace and love, bro! Vista, però, la linea Working Class Dandy del magazine che avete sul monitor, non potevamo esimerci dal trattare il tema dell’abbigliamento militare.
Quando l’abbigliamento militare entra nell’ambito civile, nella cultura, sub-cultura, contro-cultura, sport e free-time?
La prima volta che questo accadde fu nel Rinascimento. Le sfarzose uniformi dei lanzichenecchi svizzeri con sbuffi e colori sgargianti – avete presente le Guardie svizzere della Città del Vaticano?- furono, infatti, copiate dai nobili di tutta l’Europa.
Diventarono una vera e propria moda. I soldati di ventura svizzeri erano molto richiesti, molto pagati, ed erano molto ricchi. La moda, quindi, si diffuse tra i nobili che, a propria volta, erano così ricchi da poterli arricchire.

Il popolo vestiva di stracci anche in guerra. Fu dopo la Rivoluzione francese, in special modo con Napoleone, che l’abbigliamento militare diventò uniforme, cioè uguale per tutti.
L’abbigliamento militare si uniformò nel taglio e nella qualità. Uniformò i soldati secondo i principi della Rivoluzione francese e delle istanze repubblicane. Bisogna arrivare grosso modo al Risorgimento perché le uniformi diventino moderne. Pratiche per la vita militare e sobriamente eleganti, così da essere indossate con orgoglio dai soldati e distinguere la propria nazione.
Durante la seconda metà dell”800 abbiamo dei formidabili esempi di colorata e pratica eleganza militare, che vanno dalle camice rosse garibaldine alle divise blu dei soldati unionisti, fino alle divise grigie dei soldati confederati durante la guerra civile americana. A parte i gradi di un colore contrastante alla divisa – per essere ben visibili – e, in certi casi, ai cappelli degli ufficiali di diversi gradi, il resto delle truppe è uniformato.

Occorrerà, però, qualche decennio perché l’abbigliamento militare diventi pratico e sicuro, confortevole e mimetico. Gli eserciti sviluppano un sorta di fashion style alternativo al nascente fashion style.
Se il fashion nascente era creato dagli stilisti e rivolto a vestire la nascente borghesia, il proletariato, che continua ad essere arruolato con la sempre più diffusa coscrizione obbligatoria, si trovava a vestire come il borghese durante gli anni della leva.
L’abbigliamento militare è comodo, pratico e durevole. É economico e, a guerra finita, il redneck confederato continuerà a indossare quella divisa, diventando il veterano proletario unionista, come il garibaldino. Come i reduci della Prima Guerra Mondiale. Quello avevano, quello indossavano perché quello erano.
Poi c’è la Seconda Guerra Mondiale che, nella sua disumana crudeltà, è una guerra moderna e funzionale. É l’ultima guerra contrapposta, frontale, totale, manichea se vogliamo.

In quella manciata di anni, la tecnologia fece passi da titani in tutti campi, tra i quali l’abbigliamento militare.
Arrivò il dopoguerra, la pace. Dalle rovine rinacque un certo benessere, più o meno equamente diffuso, come sono diffusi i residuati bellici da riconvertire. La Land Rover, per il suo iconico fuoristrada, riutilizza la vernice in eccesso, che veniva prima usata per i caccia Spitfire. Nello stesso periodo, la Willis, meglio conosciuta come Jeep ha una felice riconversione in ambito civile come CJ, che poi si declinerà in Renegade.
Nulla a che vedere, a livello di design, con il moderno veicolo omonimo sempre Jeep; Laredo, Golden Eagle, fino ad arrivare al moderno Wrangler senza grandi variazioni sostanziali. Il nome Jeep, tra l’altro, ha un storia curiosa e divertente. Se Willis era il marchio di fabbrica, il modello si chiamava General Purpose. I Marines, però, la chiamavano familiarmente Jeep anche per l’usanza diffusa di disegnare il Jeep su ogni mezzo. Il Jeep è il cane di Popeye.
Un altro esempio di riconversione civile di oggetti militari, è il coltellino milleusi Victorinox. In dotazione all’esercito svizzero, oggi è di uso comune. Per non parlare degli orologi.
Il padre di tutti gli orologi subacquei è il Blancapain, studiato per i Commando della Marina francese, da cui deriva il Rolex Submariner e, a propria volta, il GMT. Entrambi indossati, per la loro affidabilità, da Che Guevara e Castro sulla Sierra Maestra. Per stare ad orologi più alla portata di tasca, quando ero bambino, era molto diffuso il Timex che era l’orologio della US Army. Sempre di quegli anni ricordo la borraccia, con cui andavo in gita, e il tascapane in cui mettevo i miei libri di scuola… entrambi di derivazione militare. Ma quello che ci interessa è l’abbigliamento militare, il wear.
L’abbigliamento militare, nel dopoguerra, è oggetto di attenzione da parte di genitori in carriera e figli ribelli.
I papà continuavano a comprare alla fiera di Sinigaglia, o al mercatino militare di Livorno, camice militari, maglioni militari idrorepellenti o field jacket M43 poi diventate M65. Erano comodi per andare a caccia, a pesca e nel tempo libero. D’altronde, i papà andavano al lavoro in cravatta, che in origine era una sciarpa usata dall’esercito croato. Nel tempo libero, in estate, indossavano la sahariana, derivata dalle forze armate inglesi, mentre le madri passavano dagli occhiali a farfalla ai Ray Ban Aviator. I rampolli ribelli?
I rampolli ribelli, così definiti dai Montanelli e Nantas Salvalaggio e vari fustigatori di costumi, passavano dal coltellino Victorinox dei boyscout e il tascapane del ginnasio (Cngei o Agesci che fossero) alle sub/counter culture.
Qui, in effetti, decolla il pezzo dell’abbigliamento militare – dudes and betties – e ci si sposta dal Mediterraneo all’Atlantico.
Nell’immediato secondo dopoguerra, come durante la corsa all’oro e dopo la grande depressione, la risposta fu sempre la stessa: go west! Il West è la California di Steinbeck, di Hammet e Chandler; di Pynchon e di tutti quelli in cerca di una chance e di un destino da cui fuggire ed evitare. Ribelli che mettono le basi della sub/counter culture che rimbalzerà sulla sponda europea dell’oceano Pacifico e Atlantico, surfando fino al mar Mediterraneo. Nella land of free cantata da Woody Guthrie, lo stato della California, possiamo assistere a una riconversione a tutto campo.
Le Harley Davidson vendute come residuati bellici a poco prezzo sono ricercate dagli Hell’s Angels i quali fanno anche incetta di elmetti della Wermacht, stivali da carristi. Quelli attualmente conosciuti come biker boot. Anche il leather jacket, il chiodo, deriva dal giubbotto dei carristi tedeschi e sarà uno dei capi più diffusi tra le sub culture. Dalle bande di biker ai rocker, dal punk al metal, fino a Zara e H&M, ecc. ecc.
Sempre in California sono i beatnick a rendere cool il basco. In effetti nacque come berretto della working class basca. Diventò presto un berretto in uso a tutti gli eserciti regolari e irregolari, come i guerriglieri cubani (cercate una foto in cui Ernesto Guevara non sia con il basco in testa) e le Black Panther. Anche nel punk degli albori non manca il basco (cercate una foto di Captain Sensible dei Damned dove non abbia il testa il suo basco rosso).
L’abbigliamento militare è molto diffusi anche nel guardaroba di ogni hippie che si rispetti. I surfer, invece, pur avendo una certa tendenza alla renitenza alla leva, prediligevano i pantaloni da lavoro dei Marines, i peacoat della US Navy e i soprabiti della US Army.
Sia i surfer che i biker, che gli hot rodder o semplici hoaded, in quegli anni, sembravano essere pazzi per paccottiglia nazista. I già citati elmetti della Wermacht, ma anche quelli prussiani della Prima Guerra Mondiale, i Von Zipper (quelli con il puntale) e la iron cross, che viene totalmente de contestualizzata da Big Daddy Roth.
Le sub-culture si diffondono parallelamente anche nella nostra vecchia Europa con proprie peculiarità. Anche in questo caso si attingerà a piene mani dai surplus militari.
Tra i dandy della working class, i modernisti abbreviati in Mod, diventa un capo imprescindibile il parka dei soldati americani, usato nella guerra di Corea e il field jacket.
Rude boy e skinhead condividono con i Mod il bomber, che è il giubbotto in nylon in uso nella USAF e, in parte, anche gli anfibi di derivazione militare o antinfortunistica. In tal caso il primato di origine non è chiaro.
Gli anfibi sono anche nel guardaroba dei punk. Dai Ramones in poi rilanciano il leather jacket , il chiodo. Lo portavano con la t-shirt a righe azzurre orizzontali su fondo bianco, diffusa anche in ambito garage e tra i surfer. Questa viene presa dalle divise dei fucilieri di marina sovietici, Spetsnatz poi. Il leather jacket verrà adottato anche dai metal kids. Il più iconico leather jacket è il Perfecto della Schott.
Rimanendo in ambito elite force nel surf i quegli anni si diffonde il boonie hat, cappello facente parte della divisa dei Navy Seal.
Qui da noi, durante gli anni di piombo, sia comunisti che fascisti ( in quegli anni gli schieramenti erano stolidamente manichei) attingono dai mercatini militari per creare autentiche divise militari che rendano le parti indistinguibili. Se una parte è riconoscibile per il prossimo parente del parka, l’eskimo, rigorosamente verde con pelo sintetico bianco, Clark in uso nella WW2 tra i reparti degli scorpion’s desert inglesi. Non dimentichiamo i peacoat della marina militare in uso principalmente tra Autonomia Operaia e il soprabito militare che era prerogativa dei servizi d’ordine. L’altra parte si distingue per Ray Ban a goccia della USAF. Il field jacket rigorosamente nero. Il Montgomery, capo militare per eccellenza, che era usato dal generale Montgomery era un capo trasversale.
In quegli anni si rischiava di prenderle se si indossava il capo sbagliato. Ne so qualcosa. Avevo un cugino più grande e, all’epoca, c’era la parsimoniosa abitudine di passarsi i capi mano mano che si cresceva, visto che le mode duravano più a lungo di oggi. Siccome eravamo di idee politiche opposte, dovevo fare una attenta cernita dei capi.
Passati i tempi intesiti si arrivò ai frizzanti anni ’80 e nel guardaroba dei Paninari, sopratutto i primi, i capi militari spiccavano.
Abbiamo il bomber di cui abbiamo appena accennato. Lo Schott, che è la versione del giubbotto da aviatore in pelle con collo di pelo e interno di pelo entrambi removibili. Sempre rimanendo in abito di Top Gun non si può dimenticare il giubbotto da aviatore in montone, reso iconico dal generale Patton. Anche nell’outfit dei Paninari è presente il bomber.
In questi anni i capi militari si spostano dai mercatini militari ai negozi cool, con conseguente aumento di prezzo. Fino ad arrivare, oggi, a cifre stratosferiche essendo i capi riproposti e rimaneggiati da stilisti e luxury brand.
Ciò è in parte dovuto alla progressiva scomparsa delle sub-culture e contro-culture e all’appropriazione/gentrificazione di questi capi, scoperti dai brand del fashion. In effetti sono capi comodi, robusti ed iconici di cui è facile appropriarsi. É facile brandizzarli, sopratutto in un momento come questo, in cui la moda è freneticamente alla ricerca di nuovi trend da lanciare con tempi in 4/4 hardcore.
Quindi, oggi, possiamo vedere la sciura con il field jacket con i patch di Ralph Lauren e il commercialista con i biker boots che costano quasi come la sua Harley D. Un bear al Pride con un Ike, il giubbotto così chiamato perché ideato dal Generale e futuro Presidente USA Eisenhower, con l’intento di rendere più funzionali le uniformi della U.S. Army. Ike reinterpretato da un brand street wear-luxury, ovviamente.