vivienne westwood

Vivienne Westwood non ha inventato il punk

Il 29 dicembre, oltre a Pelé, ci ha lasciati, come saprete già tutti, la geniale stilista Vivienne Westwood. La notizia del lutto ha avuto un certo clamore perché  la stilista era strettamente legata agli albori del punk.

Stupisce il clamore che ha avuto su quella sorta di Villa Arzilla che è ormai Facebook dove, appena muore qualcuno legato all’immaginario collettivo, inizia una parodia da funerale siciliano con prefiche (non pagate) che si lanciano in piagnistei scomposti e iperboliche sopravvalutazioni del famoso defunto di turno. Con l’improvvisa uscita di scena di Vivienne Westwood c’è stata una vera e propria esondazione di post e storie sui social.

Un vero e proprio contest di prefiche non pagate dove si salutava la regina del punk, colei che ha dato un vestito, un’immagine al punk. 

Gli esegeti della Westwood erano riconducibili a 2 gruppi anagrafici: ultra 60enni e ultra 40enni. La cosa è comprensibile. I primi sono quelli che al punk sono arrivati dopo essere passati dal prog e Lou Reed-Iggy Pop-David Bowie, cioè quando già avevano intorno ai 20 anni. Hanno, quindi, sempre voluto sovra-strutturarlo-culturizzarlo e collegarlo ai loro ascolti precedenti. I secondi sono quelli con il sacro rispetto della polvere della storia musicale, che considerano le band come capi vintage e che sono cresciuti divorando biografie e non sono molto dissimili dai primi.

Sostanzialmente, si tratta due gruppi anagrafici di nostalgici che si ritrovano in una sorta di raduno di revisionisti storici proiettati in iperboliche ipotesi distopiche. Riconoscere una certa importanza alla Westwood è legittimo ma dire che sia stata fondamentale per il punk è revisionismo storico a briglia sciolta.

Semmai è stato il contrario: il punk è stato fondamentale per la carriera da stilista di Vivienne Westwood. 

Sono nato nel 1964 e posso dire di appartenere a quel gruppo anagrafico che il punk lo ha apprezzato e capito e amato in pieno per quello che era. Le prime cose che ho sentito sono stati  Ramones, Damned e Sex Pistols sul finire della terza media. Non conoscevo altra musica, né ero interessato ad altro tipo di musica. Avevo capito che quella era la mia musica, per la mia generazione. Una musica di rottura generazionale come era stato il r’n’r nel ’54 per i teen ager di quegli anni. Non era tanto importante saper suonare bene, era urgente fare le proprie canzoni. Era un anno zero, una nuova era – per citare il Kamandi di Jack Kirby – in cui le band erano bande giovanili che si facevano le proprie uniformi e l’ultima cosa che si pensava era a stilisti di riferimento.

Il motto era Do It Yourself. Si prendeva il maglione in mohair della mamma e lo si metteva con i jeans, rotti sulle ginocchia, con anfibi militari o Converse Chuck Taylor… che erano le più economiche in circolazione! Scrivevi a spray con stencil fatti in qualche modo sulle t shirt e, a furia di risparmi, ti compravi un’imitazione di Perfecto.

A parte i Sex Pistols ai primi esordi nessuna band punk si è mai esibita vestita da Vivienne Westwood. 

Alla fine, i pantaloni in tartan esistevano prima che li proponesse la Westvood esattamente come il Perfecto della Schott, le Converse Chuck Taylor, le cinture con le borchie, i pantaloni in pvc e le t-shirt con i disegni BDSM gay di Tom of Finland. La Westwood ha colto meglio l’onda e l’ha surfata molto bene e a lungo. Tutto qua. 

Era diventata taoista e molto impegnata con la questione ambientale e del punk non ne parlava nemmeno più da anni, giustamente. Era una brava stilista il cui ex marito, Malcom MCLaren, era stato coinvolto in modo fondamentale con il punk e per certi versi anche lei. 

Tuttavia, la cifra stilistica del punk era il D.I.Y. (Do It Yourself), quindi non tiriamo in ballo regine e creatrici di stile per un movimento che lo stile se lo creava da sé, ognuno a modo  proprio, in ogni latitudine. Mettetevi in pace il cuore e il cervello.

Articolo di Francesco Aldo Fiorentino