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Il surf-mondo è estraneo alle discriminazioni?

Il surf è estraneo al razzismo, al sessismo e alla discriminazione di gender? Mi piacerebbe e sarei tentato di dire di sì, ma purtroppo la risposta è no.

Recentemente su Beach Grit, un magazine di surf online che non rifugge alla polemica, ho letto dell’accusa di Lauren Hill di sciovinismo e maschilismo. Lauren Hill è una pro-surfer, giornalista e scrittrice di surf. É molto impegnata nella causa ambientale e nel rivendicare i diritti delle donne nel surf insieme al compagno Dave Rastovic.

L’accusa diretta a The Surfer Journal è arrivata a mezzo post Instagram e sparava ad alzo zero su alcune foto che ritraevano surfer in bikini e in topless, scattate, in un periodo che andava tra i 50’s e i 70’s, dal fotografo di jet set Aaron Slim. 

Foto che con il surf non c’entrano nulla se non fosse che c’è il surf. Sono foto il cui trait d’union è la tesi, di Slim, che la gente bella fa cose belle.

Nulla di nuovo sotto il sole, se non l’appropriazione di immagine del surf e lo svuotamento di ogni contenuto. D’altronde è così che oggi il surf viene proposto dai media: gente bella&ricca&sana che dimora in van ultra-accessori&ecologici che costano come appartamenti . 

Ovviamente The Surfer Journal, che è un magazine cartaceo senza uguali per contenuti e linea editoriale, non ha mai sposato questa tesi, tutt’altro. Il tutt’altro era appunto l’oggetto dell’articolo. 

La Hill non è abbonata a TSJ, ma se l’è trovata tra le mani a casa di una amica. Indignata lo ha scaraventato dalla parte opposta della stanza in cui si trovava e ha iniziato a digitare il suo j’accuse su IG. Nel quale, tra l’altro, accusava i media di surf di lasciare poco spazio alle donne.

Ne è nato un ambaradan mediatico alimentato da follower che si schieravano con Lauren Hill. La cosa è tracimata con l’accusa rivolta a The Surfer Journal di dare poco spazio alle giornaliste e di interessarsi poco al surf femminile.

Non possiamo risolvere la questione qua e men che mai posso farlo io, è indubbio che ci siano meno giornaliste nel surf, ma sono sicuramente più che in qualsiasi altro tipo di sport. Altresì, il surf femminile ha sempre più appassionati – non c’è paragone con il calcio femminile, il basket femminile, ecc. ecc. – perché è oggettivamente più interessante di quello maschile.

Il problema grosso è che chi commentava non aveva mai letto TSJ e alcuni non ne conoscevano nemmeno l’esistenza. 

La maggior parte dei commenti veniva da chi surfava da poco e di surf sapeva poco, ma aveva l’afflato del neofita che si vuole introdurre. Inevitabilmente si trova in un mondo che conosce poco.

Questo atteggiamento è  la rip current creata da chi surfa più tempo in rete che in acqua. La rip current è una corrente pericolosa che porta al largo da riva. 

Ovviamente la rip current è pericolosa per chi si fa prendere dal panico, ma è utile chi la sfrutta per accedere con meno fatica alla line up… perché alla fine porta lì. Ecco, internet è come la rip current, c’è e bisogna farci i conti. Non ci si di deve far trascinare, bisogna utilizzarlo. Surfarlo. Se lo si sa utilizzare è una ottima risorsa.

Molti surfer sono cresciuti su internet. Altri ci sono arrivati e ci trascorrono non meno tempo di chi ci è cresciuto. Chi scrive, com’è evidente, ci trascorre molto tempo.

Prima di internet vi erano solo i magazine cartacei come Surfer magazine, Surfing magazine e The Surfer Journal. Tra un servizio da togliere il fiato, la buyer guide dei surfboard, le immancabili pubblicità con culi e tette e aerial e hang ten si andavano a grattare le croste che coprivano le rogne che ci sono anche nel surf-mondo.

Sì, perché gli aspetti sgradevoli del surf, il surf-mondo non li ha mai evitati. Li ha sempre affrontati. I tempi di risposta alla questione del momento, però, maturavano di mese in mese e viaggiavano via posta.

Non è che se Severson su Surfer magazine sollevasse la questione del nazismo nel surf e Nat Young parlasse della discriminazione razziale in relazione a Miki Dora; se Chris Buckard su TSJ toccasse il tema del surf e del traffico di droga parlando di Rick Rasmussen, tutte queste cose passassero in sordina, anzi.

Si scatenavano accese discussioni e tutto il surf-mondo prendeva inevitabilmente atto dell’esistenza del problema.

Questo approccio era unico del surf. Gli stessi problemi, o analoghi, c’erano nel calcio, nel tennis e in chissà quale altro sport, ma non venivano sollevati, tantomeno dalle riviste di settore. Era possibile perché chi leggeva i magazine sopraelencati era parte del surf-mondo. Chi vi si approcciava, prima di prendere carta, penna e scrivere (anche sul PC che esisteva da prima di internet), imbustare, affrancare e recarsi in skateboard alla buca delle lettere, aveva di che riflettere e valutare se era il caso di farsi la sbatta per dire la sua. Questo scremava l’iniziato dall’introdursi nel surf mondo.

Inoltre, chi si imbarcava in una discussione non era, ovviamente, influenzato dalle opinioni/argomentazioni che leggeva alla meglio, dopo un mese, nella rubrica Posta Restante su Surfer magazine per esempio. 

Adesso l’accesso nel club, nel surf-mondo, avviene immediatamente. In un click. Tutto è a portata di un click. 

Questa è una figata, senza dubbio, ma dà poco tempo per ragionare, metabolizzare. Cosa non da poco. Chi è nel club da poco capisce subito qual è la piega che sta prendendo la discussione e, magari, si accoda al trend per mettersi in mostra o evitare l’ostracismo mediatico.

Da media, internet, in certi casi, per molti, rischia di diventare un medium che evoca convinzioni stratificate, velocemente. Altrettanto velocemente dà la possibilità di esprimersi a tanti che non sono ferrati sull’argomento complessivo e, spesso, complesso. Perché non hanno avuto il tempo necessario per farsene un’idea.

Quindi no, il surf non è estraneo al razzismo, alla discriminazione di gender perché le/i surfer, pur essendo nel surf-mondo, vengono dal real-mondo, dove queste cose esistono e, quindi, le portano con loro. Maturano presto, però, la consapevolezza di metterle in discussione.

Quanto durerà questa consapevolezza prima di essere travolta dall’attitudine dei surfer di internet, per cui chi urla prima e con la voce più alta si aggiudica la ragione?

In originale il proverbio sarebbe: chi el vusa pusè la vacca l’è sua.

Non si rischia così di vanificare una consuetudine che possiamo far risalire, per lo meno, alla nascita di Surfer magazine, poco dopo Surfing magazine, e che continua ormai unicamente su The Surfer Journal

Per quanto sarà ancora possibile conciliare, nel surf mondo, due media che corrono a così diverse velocità ed hanno due cosi diverse fruibilità? Vedarem!