Fabio Weik introduce Assembla, un’opera figlia del momento, che vuole rappresentare il neonato disagio psico-sociale: la fobia del contatto. Come lo fa? Avvalendosi di corpi in carne e ossa, ma non solo… Le trasmissioni riprenderanno il prima possibile è aperta al pubblico (fino al 30/06/2021) e riunisce varie opere dell’artista sotto il segno dei media e del loro impatto sulla società. Noi l’abbiamo incontrato per chiedergli di più sull’installazione.
Come è nato il progetto?
Fabio Weik: «Il progetto è stato concepito in piena pandemia, durante il lockdown, con l’intenzione di presentarlo nel momento in cui le cose si sarebbero ristabilizzate, da qui il titolo Le trasmissioni riprenderanno il prima possibile. La mostra include progetti vecchi e nuovi che hanno come tema di fondo il sistema mediatico, si tratta di produzioni che si ispirano alle notizie bomba e al concetto di sensazionalismo. Viviamo in una società in cui siamo sovraesposti a un flusso di notizie continuo. Io porto lo spettatore a riflettere su quelle notizie di cui i media ci “bombardano” nel breve periodo e il cui esito viene ignorato dalle persone perché trattasi di notizie che vengono presto sostituite da altre. Il tema del viaggio in mare che compiono i profughi, fulcro di Balla ed Ermeneutica, fa parte di quel tipo di notizie che sono state oscurate dalle informazioni sul Covid-19.
Balla ed Ermeneutica in generale, si concentrano sulla tematica del viaggio del profugo. Balla, poco tempo dopo l’uscita, è stata interrotta proprio dalla seconda ondata del virus. Un’interruzione delle trasmissioni che riflette il flusso mediatico che ha abbandonato la narrazione dei migranti a favore della pandemia. Ogni informazione sovrasta l’altra».

Come hai scelto la location?
Fabio Weik: «Il posto è stato scelto grazie al (laboratorio) Studio 40, col quale collaboro per le location delle mostre. Nicola Falappi trova sempre dei non-luoghi lontani dai canoni delle location espositive tradizionali, inoltre è molto attivo sulla città di Brescia. La città è destinata a diventare una delle capitali dell’arte nel prossimo futuro, quindi abbiamo colto la palla al balzo. La Società Ferro Bulloni è stata trovata per caso; ce ne siamo innamorati quasi subito. Questa fabbrica rappresenta la Brescia industriale del secondo dopoguerra e non è cambiata di una virgola dagli anni ’50. La struttura è pensata per sostenere carichi di peso importanti, è stata costruita per immagazzinare tonnellate di bulloni. Ciò che mi ha convinto a scegliere questo posto, oltre all’architettura, è il fatto che questo stabile è rimasto chiuso per molto tempo per riaprire solamente ora con la mia mostra. L’attività del luogo si è interrotta per molto tempo, come per le mie trasmissioni e quindi, con il mio lavoro, la fabbrica è stata riaperta sotto una nuova veste.
I proprietari del posto, la famiglia Borghi, sono persone che hanno sempre lavorato e dato lavoro a molte persone. All’epoca l’impegno era più reale, fatto da persone e materiali, non era immagazzinato in file digitali. L’interno della fabbrica è davvero sorprendente, tutte le persone esperte nel settore si sono complimentate per la struttura. Il montacarichi è enorme, il suo motore è quello di una nave, proprio per sostenere il peso del ferro e tutti i mobili sono in acciaio. Mi piace fare le mostre in questi spazi, si crea un legame affettivo con la location. I musei e i posti adibiti all’arte contemporanea mostrano e valorizzano il contenuto ma non dialogano con esso».
Parlaci dei protagonisti della tua nuova opera
Fabio Weik: «Mi sono detto: «Voglio iniziare a parlare della tematica della pandemia». E qual’è la cosa che meglio rappresenta la pandemia? La morte e la dissociazione, il distanziamento sociale e fisico che ha riguardato attività quotidiane, in particolare per i giovani quelle ricreative, come frequentare concerti, discoteche. Mi sono lasciato ispirare dal contesto bresciano underground, più specificatamente dal movimento sub-culturale italiano più famoso nel mondo: i Warriors. L’aspetto incredibile è che anche alcuni produttori di Miami conoscono questo fenomeno italiano che sopravvive solamente qui. I gabber, invece, sono un altro tipo di fan della musica hardcore, infatti hanno avuto origine in Olanda. I warriors sono tutti italiani e, ogni volta che si tiene un festival hardcore, i partecipanti non vedono l’ora di fare le piramidi.
Così ho deciso di mettermi in contatto con warriors e gabber italiani per ricreare una sorta di assembramento controllato. Ho avuto la fortuna di trovare ragazzi appartenenti sia alla old school che alla new school ai quali ho proposto di rivivere l’esperienza della piramide. L’ho voluta fare qui dentro perché il progetto Assembla (non è un caso il gioco di parole “assembramento” e “assemblamento”, spesso confuse dall’opinione pubblica durante il primo lockdown) descrive il distanziamento, ovviamente mi sono premurato di far loro i tamponi e di igienizzare il posto».
Qual è l’obbiettivo della cima della piramide?
Fabio Weik: «L’ultima persona in cima alla piramide doveva toccare il soffitto, finché qualcuno non lo avesse toccato la serata non sarebbe potuta finire. Il luogo italiano più famoso in questo senso era il NUMBER 1, locale in cui si tenevano serate hardcore e che ancora oggi vive nella nostalgica memoria di gabber e warriors. Nel caso della mia piramide, lo scopo non era quello di toccare il soffitto, volevo semplicemente rimettere delle persone in contatto tra loro. Questo progetto rappresenta un aspetto della pandemia e omaggia un ambiente sub-culturale e musicale tutto italiano. Purtroppo i media hanno connotato questo gruppo di persone negativamente, il loro è un movimento spinto dalla passione per la musica hardcore, non dalla violenza.
Una delle persone che mi hanno aiutato maggiormente a ricreare l’ambientazione e la piramide è stata DJ Corona. Fare la piramide è estremamente pericoloso, infatti ad alcuni warriors mancano le dita, è molto hardcore come cosa. Un altro grande aiuto per la realizzazione di questo progetto è arrivato da parte di Australian, brand prediletto da gabber e warriors. Li ho contattati perché volevo anche ricreare gli outfit originali. Mi sono recato nel loro studio per vedere tessuti di archivio, abbiamo praticamente rifatto delle vecchie tute fuori produzione con l’ausilio di fotografie degli anni ’90. Questo lavoro ha portato come risultato un progetto composto da fotografie, un video di 40 minuti in slow motion che mostra i protagonisti mentre fanno la piramide e altri progetti collaterali minori. Il tutto, infine, porta agli occhi delle persone la tematica del distanziamento sociale.
Credo che sarà veramente difficile rivivere un’esperienza di questo tipo in un locale, parlo di ammassamenti, poghi e così via. Il nostro concetto di socialità e la sua percezione è cambiato completamente».
Non è stato possibile riproporre la performance durante l’evento di inaugurazione?
Fabio Weik: «Non sarebbe stato sicuro, ogni persona avrebbe dovuto fare il tampone e avere la certezza di non mettere a rischio nessuno. Quando si potrà fare liberamente, lo faremo. Per ora abbiamo deciso di rappresentarla per mezzo di manichini che ricordano le pose reali di coloro che hanno realizzato la piramide. La scelta dei manichini è stata consapevole, voleva trasmettere l’idea di finzione, richiamando la realtà con i vestiti utilizzati per la performance».
Come dialogano tra loro le tue opere? La parte sotterranea era piena di raccolte di documenti e oggetti, sono originali oppure fanno parte dell’opera?
Fabio Weik: «La parte sotterranea della mostra dialoga con il posto. Il monoscopio, fatto di carta, si stacca volutamente con il passare del tempo… Probabilmente alla fine della mostra si sarà staccato completamente. Ci sono moltissimi collegamenti concettuali tra le opere, ma il filo conduttore è sicuramente sono sicuramente l’impatto dei media sulle persone.
I documenti sono originali del posto, ma non per questo non fanno parte dell’opera. Il posto è rimasto quasi inalterato; ho lasciato la scaffalatura e le scatole dei chiodi, che sono lì dal ’45. Mi è piaciuta l’idea di valorizzare il posto anche in termini temporali. Non ho voluto toccare l’ambiente.

La fabbrica rappresenta un altro aspetto legato a questo periodo storico, la disperazione della chiusura di un’attività. Questo è un posto chiuso per via del progresso che il tempo, inevitabilmente porta con sé. Un tempo questo magazzino si trovava nel cuore della zona industriale di Brescia, poi con la gentrificazione, c’è stata una riqualificazione urbana con conseguente aumento dei prezzi delle abitazioni e della vita; il centro si è ampliato e i camion non riuscirono più ad entrare. I proprietari sono affezionati a un’altra epoca e non hanno il coraggio di dismettere questo posto preservato dal passare del tempo».
Progetti futuri?
Fabio Weik: «Dovrei portare Assembla a fine luglio al Ride Milano. La mostra sarà più ampia e indagherà ancora di più il mondo dei warriors, dai tatuaggi ai racconti di come hanno vissuto».