Fabio Treves è nato a Milano, il 27 novembre 1949, sotto il segno del Sagittario. Cresciuto in zona Lambrate, a Milano, si avvicina al mondo della musica già da bambino, complice la passione del padre. È il Blues italiano.
A casa mia si ascoltava buona musica. Intendo dalla classica alla bossanova; il jazz di Miles Davis, il bebop, il traditional e, ovviamente, il Blues. Così è cominciato il mio viaggio musicale. Dal Mississippi al Lambro e ritorno. Ho cominciato con il british Blues a metà degli anni ’60 e sono ancora in cammino. Pur non avendo mai lavorato nei campi di cotone del Mississippi ho fatto 5 anni di Liceo al Carducci. La sofferenza era comunque forte (risata, N.d.R.). É una battuta, ma un fondo di verità c’è. All’epoca tutti ascoltavano le musichette, il beat; io ascoltavo i padri del Blues e il mio sogno era quello di andare in America e viaggiare lungo le strade del Blues.
Fabio Treves, Il Puma di Lambrate
Abbiamo raggiunto Fabio Treves al telefono, dopo un periodo in cui la musica si è fermata. Un periodo in cui i concerti sono andati a singhiozzo, non lo spirito del Blues. Proprio al Puma di Lambrate abbiamo chiesto di raccontarci il suo viaggio alle radici del Mississippi o, meglio, del Lambro, tra aneddoti, incontri, concerti e avventure che meriterebbero un film.
Siete riusciti a fare qualche live anche durante questi due anni?
Fabio Treves: «Sì, una decina di concerti dopo il primo lockdown e altri quando, dopo le riaperture estive, l’attività è ripresa. Certo, i sorrisi sono coperti dalle mascherine, non ci sono gli abbracci e le persone che ballano sotto al palco ma, come si dice a Lambrate: – Piutost che nient, l’è mei piutost».
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Hai incontrato la tua compagna di viaggio a un concerto degli Who, è corretto? Intendo l’armonica, tua moglie è un’altra storia. Dopo tanti anni che ti divide con il Blues non credo sia gelosa della tua armonica (risata, N.d.R.).
Fabio Treves: «(Suona l’armonica al telefono, N.d.R.) L’ho incontrata a un concerto degli Who, nel 1967. La suonava Roger Daltrey e, prima di lui, anche il cantante de I Primitives, che suonavano di supporto. Non l’ho mai più lasciata. L’ho sempre con me. La puoi suonare ovunque. In viaggio, su una panchina. Se avessi scelto l’organo sarebbe stato decisamente più difficile (risata, N.d.R.)».
La Treves Blues Band, invece, è arrivata qualche anno dopo.
Fabio Treves: «É arrivata nel 1974. Il primo disco lo abbiamo inciso nel 1976. Erano gli anni del Rock Progressive, della canzone di protesta, dei cantautori impegnati. Noi facevamo Blues e, già all’epoca, mi dicevano che il Blues era morto. Ancora prima, però, chiedevano: – Ah, fate Jazz? Rispondevo: – No, Blues. Sono più di 40 anni che la Treves Blues Band esiste e ce l’ho fatta a far capire che il Jazz è il figlio e il Blues è il padre. Il nostro obiettivo è portare il Blues ovunque. Non siamo un gruppo che pensa al successo e ai soldi. Siamo una band che va oltre al presente. In questo periodo prendo in mano l’armonica, suono e mi rendo conto che questi sono momenti da lasciarsi presto alle spalle».
Fabio Treves ha vinto un Ambrogino d’Oro, la più importante onorificenza rilasciata dal Comune di Milano ai propri cittadini meritevoli.
Fabio Treves: «Sono milanese e ho fatto parte della Giunta comunale della mia città. Questo già basterebbe a essere orgogliosi. Avere preso un Ambrogino d’Oro per il mio impegno, la mia cocciutaggine, nel diffondere la cultura Blues, mi ha fatto ancora più piacere».
Tornando alla musica live, qual è stato il concerto che ha segnato il Fabio Treves appassionato?
Fabio Treves: «Sicuramente il Festival Rock all’Isola di Wight. Era l’agosto del 1970. Non è stato un concerto ma una situazione che mi ha sconvolto l’esistenza. Sono partito con un gruppo di 4 amici, su una Renault scassata, senza biglietto.
Eravamo dei ventenni cui si è aperto un mondo ascoltando live: Santana, Janis Joplin, Jim Morrison, Jimi Hendrix, Who, Jefferson Airplanes, ecc. ecc.; insomma il Gotha del rock britannico e americano».
Qual è stato il concerto da protagonista che non potrai mai dimenticare?
Fabio Treves: «Sono stati due. Quando Frank Zappa mi ha chiamato sul palco nel 1988, sia a Milano che a Genova, per suonare con lui. Erano circa 20 anni che non chiamava nessuno sul palco. Dopo i gorgheggi di John Lennon e Yoko Ono, che gli rovinarono uno show a New York, non aveva più voluto invitare nessuno sul palco, prima di me. Ancora adesso, se ci ripenso, mi commuovo. Non ci credevo, pensavo scherzasse. Il più grande artista che abbia mai conosciuto. Era in grado di passare dalla classica alla musica sacra, fino al Blues, in maniera unica. Quando riascolto il disco live in cui presenta: – il mio amico Fabio Treves, è sempre un tuffo al cuore».

Siete diventati amici.
Fabio Treves: «Assolutamente sì. Nell’autobiografia mi definisce un anarchico. Zappa racconta quando lo accompagnai in Comune, a Milano, perché voleva chiedere il Teatro alla Scala per rappresentare una sua opera rock. Sarebbe dovuta essere per i Mondiali di calcio ’90. Il Comune negò il permesso e lui ricorda quell’episodio nella sua autobiografia:
Sono andato a richiedere la Scala a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, erano presenti il Sindaco (un socialista), l’Assessore alla Cultura (un comunista), Fabio Treves (un anarchico).
Frank Zappa, musicista e compositore
Quelle due righe scritte da Zappa penso le metterò sulla mia lapide, se mai qualcuno deciderà di farmi una lapide. Fabio Treves, un anarchico. Firmato Frank Zappa».
…e il Boss, Bruce Springsteen?
Fabio Treves: «Bé, il suo abbraccio a fine del concerto al Circo Massimo nel 2016. Indimenticabile. Un grande uomo e un grande musicista. Lì ho capito perché lo chiamano il Boss. Ci chiese di aprire il suo live. Gli abbracci e i complimenti sinceri di Bruce li porto dentro di me tra le cose più belle che mi siano capitate in questo lungo e fortunato viaggio».

Com’è stato, invece, tornare alle origini: dal Lambro al Mississippi?
Fabio Treves: «Sono un Sagittario e la caratteristica del mio segno è la passione per i viaggi e per la libertà. Quindi, suonare sulle rive del Mississippi, a Memphis, puoi immaginare che sensazione mi abbia trasmesso. Se chiudevo gli occhi sentivo ancora i canti di lavoro, dai campi di cotone ai docks. Un’esperienza irripetibile. Lì, poi, ho suonato con grandi nomi del Blues. Ero ospite del Memphis Blues Festival, nel 1992. C’erano James Cotton, Buddy Guy, John Popper, Kim Wilson e i Thunderbirds e poi noi, la Treves Blues Band.
Il Blues non conosce confini, né fisici, né spirituali. Se ami il Blues sei un cittadino del mondo. Portare la musica della Treves Blues Band dove nascono le radici del Blues è stato davvero emozionante».
Torniamo dal Mississippi al Lambro. Tu sei Fabio Treves detto il Puma di Lambrate, in onore di un tuo idolo.
Fabio Treves: «Nel 1977, a Milano, doveva arrivare John Mayall, il grande padre del Blues inglese. Il suo soprannome è Leone di Manchester ed è un mio personalissimo mito. Un giornalista, di cui colpevolmente non ricordo il nome, scrisse: – Non dimentichiamo che qui a Milano abbiamo Fabio Treves, il Puma di Lambrate. Questo nickname è rimasto per tutti questi anni. Purtroppo, però, non ho mai avuto occasione di suonare con John Mayall e questo è un grande rammarico. Ho suonato con Robben Ford, Mike Bloomfield, Billy Gibbons, Deep Purple e molti altri. Mai con colui, grazie al quale, io stesso, ho scoperto i grandi miti del Blues degli anni ’30, ’40, ’50».

…però, grazie alla fotografia, tua altra grande passione, hai incontrato Jimi Hendrix, con cui condividi il giorno di nascita… oltre al Blues. Jimi Hendrix e Fabio Treves…
Fabio Treves: «Suonava a Milano. Avevo 19 anni e andai per scattare delle fotografie. Arrivava questo gigante della musica rock che non avevamo mai visto prima. Io mi aspettavo un uomo grande e grosso con delle mani robuste e invece trovai una figura esile, più piccola di me, con mani lunghe e affusolate. Io ero lì con la mia macchinetta e feci delle foto durante il concerto. Mi ritrovai a un metro e mezzo da lui mentre stava per salire sul palco.

Dissi: – Ehi Jimi, ma lo sai che anche io sono nato il tuo stesso giorno, il 27 novembre? Uno si sarebbe aspettato che rispondesse: – Chi se ne frega? E invece: – Oh yeah, great! Mi prese sottobraccio e qualcuno ci fece una fotografia. Non sono mai riuscito a trovare quella fotografia. In compenso quelle che ho scattato a Jimi Hendrix fanno parte di una mostra cui sono molto legato e che ha portato, per anni, in giro per l’Italia, i miei scatti dei grandi della musica. Oggi me le richiedono ancora molti suoi fans».
Scatti stupendi, tra l’altro.
Fabio Treves: «Ti ringrazio. Mi permettono di raccontare molti aneddoti della mia vita. Tante avventure. Io ho viaggiato tantissimo. Una volta sono stato a Rotterdam con un Dingo della Moto Guzzi, 50 cc, a vedere i Pink Floyd. Sono imprese da leggenda metropolitana ma sono vere».

Dei Rolling Stones cosa mi dici.
Fabio Treves: «Per me sono l’inizio, il presente e il futuro. Sono una band incredibile. Hanno suonato tutto, ma sono da sempre dei Bluesman e non l’hanno mai nascosto. Il nome della band nasce da un brano di Muddy ‘Mississipi’ Water. Non a caso, l’ultimo loro lavoro è un disco Blues, dedicato alle loro origini. Avrebbero potuto fare qualsiasi cosa, un disco solo per fare soldi, invece…».
Non hai mai suonato con loro?
Fabio Treves: «Purtroppo no. Sono molto amico di Chuck Leavell, ex Allman Brothers Band, che ha suonato per anni la tastiera con loro e che mi racconta, quando ci sentiamo, chi sono e quanto siano umili, nonostante siano delle leggende viventi. Bisognerebbe divulgare certi racconti per evitare che giovanotti alla prima apparizione si montino la testa».
Un’ultima domanda: che ruolo ha il treno nel Blues e per Fabio Treves?
Fabio Treves: «Il treno è simbolo di libertà, di viaggio, di fuga. É la fantasia. L’abbandono di un luogo che rappresenta la fatica, il lavoro. Il treno, per me, rappresenta il viaggio in generale. Io non amo viaggiare in macchina. Il treno ha un fascino inarrivabile. Lo sferragliare del treno è musica.
Il Blues nasce anche con le catene alle caviglie, mentre i detenuti costruivano le rotaie del treno, tra fine ‘800 e inizio ‘900. Ha un significato sociale, culturale, politico.
É il ricordo di me alle prime armi, quando nei bagni del liceo, all’intervallo, mi esercitavo con l’armonica replicando lo sferragliare del treno (suona l’armonica al telefono, N.d.R.). Per questo lo suono sempre dal vivo. É un mio marchio di fabbrica e spero di farlo ancora a lungo: – Stazione di Lambrate! Stazione di Lambrate!».