Apocalypse Now (1979), come qualcuno già saprà, nasce dalla fusione di due progetti. Una pellicola militante immaginata da Francis Ford Coppola intorno alla follia della guerra del Vietnam e una trasposizione cinematografica di Heart of Darkness (1899, Cuore di tenebra di Joseph Conrad) su cui andava ragionando lo sceneggiatore John Milius; già autore e regista di Big Wednesday (1978, Un mercoledì da leoni), altra pellicola simbolo di quell’epoca.
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La vicinanza tra Vietnam e surf, non solo in Apocalypse Now e Big Wednesday, non è un caso.
Se in Big Wednesday, infatti, la guerra sconvolge le vite dei surfisti californiani; in Vietnam, il tenente colonnello William Kilgore, Robert Duvall, con i suoi uomini, per esibire la superiorità degli americani sui Vietnam cong San (comunisti del Vietnam, N.d.R.), surfa sul delta del fiume Mekong, al grido di:
Charlie don’t surf!
ovvero Victor Charlie, che stava per Viet Cong nei codici militari americani.
Charlie don’t surf è tra le battute più celebri di un film che avrebbe fatto la storia del cinema americano. Una frase che, sin dal primo momento, rimbalzò ovunque, nella vita come nell’arte, fino a comparire su felpe e t-shirt. In alcuni casi è stata affiancata al volto di Charles Manson, secondo una di quelle assurde associazioni tipiche della nostra epoca; che in molti definiscono cinica, altri post-moderna, ma che spesso appare semplicemente assurda. Era il tour di Use Your Illusion dei Guns’n’Roses quando Axl, trasgressivo cantante e leader della band, indossò quella maglia nera dedicata al celebre assassino, per il quale, non solo Rose, nutriva una profonda stima. Charles Manson era incarcerato senza aver effettivamente ucciso nessuno, con le proprie mani almeno, e la privazione del surf è privazione di libertà.
Il Vietnam, in tal senso, ha cambiato le vite di parecchi ragazzi, mentre il mondo cambiava intorno a loro.
Una notte andavi a fare un’imboscata ai Viet Cong e ti raccontavano che migliaia di ragazzi della tua età si stavano rotolando nel fango in un posto chiamato Woodstock. Durante un’altra imboscata, invece, ti dicevano che un uomo stava camminando sulla Luna.
afferma l’ex soldato James Gregory. L’impatto del Vietnam nel mondo del surf fu deflagrante, tanto che John Milius, durante un’intervista, dichiarò.
[…] allora pensavo che il surf avesse un ruolo importante in quella guerra. Il Vietnam era principalmente una guerra californiana, in molti la chiamavano ‘The California war’. Era la California che si scontrava con un’antichissima cultura orientale. E ovviamente la California ha perso. Pensa agli elicotteri che si usavano in Vietnam, con gli stemmi degli Hell’s Angels dipinti sulle fiancate. Io, per esempio, sono cresciuto a Los Angeles e per me la surf gang di Malibù era la cosa più importante che avessi. La cultura tribale californiana letteralmente permeava quel conflitto. Il Vietnam, inoltre, aveva ottime onde e quindi il collegamento tra guerra e surf fu inevitabile.
La Legge, in California, fu particolarmente inflessibile nel tentativo di stroncare la contro-cultura e le gang di motociclisti, così come quelle dei surfisti che, a mano a mano che aumentavano di numero, erano visti sempre più come un fastidio.
A quei tempi, infatti, i surfisti crescevano in maniera esponenziale. Così, attraverso il traffico di droga e il servizio di leva, la C.I.A. e la F.B.I. tentarono di stroncare tutte le sottoculture, compresi gli afroamericani Black Panthers.
Il 50% delle persone dell’epoca è morto o in Vietnam o a causa della droga.
Afferma John Milius durante una riflessione a proposito di Big Wednesday, in cui il Vietnam compare solo alla televisione. In Apocalypse Now, invece, il Vietnam è protagonista. Quasi fossero due facce di una stessa medaglia, due mondi che si specchiano l’uno nell’altro.
Gli Stati Uniti intensificarono la presenza in Vietnam triplicando le chiamate. I surfer erano reclute ideali: giovani, dal fisico allenato, abituati a non aver paura e a lunghe ore in attesa dell’onda perfetta. La surf-culture, però, era imbevuta di ideali che con la guerra non avevano nulla a che fare. L’amore e il rispetto quasi mistico per la natura li avvicinava agli hippie; la voglia di fuga era la stessa che spingeva i biker; la ricerca di valori più autentici li avvicinava alla Beat Generation. In generale erano allergici a potere e autorità. Diventare pacifisti fu un attimo. Negli anni ’60 migliaia di surfer scelsero di disertare, parteciparono alle marce pacifiste, entrarono nei movimenti di protesta, ma in molti casi dovettero partire comunque, portando sul fronte la propria cultura. In tal senso è esplicativa l’esilarante sequenza della visita di leva in Big Wednesday.
Non è un caso che, quando Milius sceneggiò Apocalypse Now, decise di inserire la scena del surfer Lance Johnson.
In palese continuità con Matt (Matt Johnson di Big Wednesday, N.d.R.) e Carson (Lance Carson, celebre surfista, N.d.R.), anche se, né Matt Johnson in Un mercoledì da leoni, né Lance Carson nella vita reale presero parte direttamente alla California war.
In Vietnam, come fa notare Milius, c’erano delle ottime onde e i soldati strappati al surf poterono continuare a cavalcarle facendosi spedire le tavole dagli USA. Alcuni surfer arruolati in Vietnam e addetti alla cartografia, infatti, avevano notato come la costa del Vietnam fosse speculare a quella della California, come se l’una si specchiasse nell’altra: a China Beach, in Vietnam, corrisponde San Onofre in California.
L’irruzione del Vietnam nel surf sta molto a cuore a Milius, tanto da ossessionarlo. I venti minuti dedicati al surf in Apocalypse Now trasformano – o semplicemente conclamano – i surfer come i nuovi cowboy, almeno nell’immaginario collettivo.
Una similitudine che lo stesso Milius aveva già evidenziato in Big Wednesday, a cominciare dalla sequenza che apre il film. Non furono gli unici esempi a dare questa lettura dei surfisti in Vietnam. Oliver Stone, ad esempio, nel suo Platoon (1986) inserirà nel plotone un surfista. John Milius utilizzò surfisti professionisti non solo per girare Big Wednesday. Li consigliò, infatti, per Apocalypse Now e li scelse anche per recitare in altre pellicole.
Per questa e per ulteriori curiosità vi rimando alla prossima ri-edizione di SURF, Un mercoledì da leoni 40 anni dopo, edito da Mondadori Electa, scritto a quattro mani dal surfista, designer e shaper, Francesco Aldo Fiorentino e dal sottoscritto. Nel frattempo potete soddisfare le vostre curiosità con Surfplay. (PREMI QUI).

The California war, John Milius chiamava così la guerra del Vietnam. Il termine California per il regista-sceneggiatore era sinonimo della generazione entrata negli anni ’60 surfando sulla musica, sulle droghe psichedeliche, sulle spiagge di Malibù. La generazione beat, mossa dalle vertigini della libertà, che un giorno si svegliò nella pancia di un aereo militare, scaricata su una spiaggia del sud-est asiatico con un elmetto in testa.
Ci vollero dieci anni per realizzare Apocalypse Now. Dal concepimento, scritto da John Milius e Coppola nel 1969, all’effettiva uscita nelle sale nel 1979. Nel frattempo, la guerra in Vietnam era finita e quello che sarebbe dovuto essere un film realistico divenne una riflessione surreale sull’orrore della guerra.
Mi piace l’odore del napalm al mattino. Una volta abbiamo bombardato una collina, per dodici ore, e finita l’azione siamo andati a vedere. Non c’era più neanche l’ombra di quegli sporchi bastardi. Ma quell’odore… sai quell’odore di benzina? Tutto intorno. Profumava come… come di vittoria. Un bel giorno questa guerra finirà.
La Neverending Summer era finita. Sugli aerei diretti a casa, in molti toglievano la divisa per evitare gli sguardi curiosi. Ancora non sapevano cosa fosse la sindrome da stress post traumatico, ma il surf li aiutò a salvarsi. Contribuì in positivo anche il forte senso tribale delle loro comunità, il loro mondo di valori e regole per cui: se disertare era tutt’altro che una vergogna, anche il reduce non doveva pagare peccati non propri con l’isolamento. Oggi le cose sono diverse, ci sono organizzazioni che aiutano i surfisti reduci dell’Iraq e dell’Afghanistan, ad esempio. Si è tutto istituzionalizzato e il surf è diventato un disciplina olimpica.
Quello che non si racconta è l’effetto che il surf ebbe sui giovani vietnamiti, che vedevano ragazzi arrivati da lontano nuotare con le tavole sulle onde del loro paese. Com’è entrato il surf nelle loro vite è un’altra storia, che sarebbe bello scoprire e raccontare.
Ho visto degli orrori… orrori che ha visto anche lei, ma non avete il diritto di chiamarmi assassino. Avete il diritto di uccidermi, questo sì. Avete il diritto di farlo, ma non avete il diritto di giudicarmi. Non esistono parole per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l’orrore. L’orrore. L’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore. Orrore e terrore morale ci sono amici; in caso contrario, allora, diventano nemici da temere. Sono i veri nemici. Ricordo quando ero nelle forze speciali, sembra siano passati mille secoli. Siamo andati in un accampamento per vaccinare dei bambini.
Andati via dal campo, dopo averli vaccinati tutti contro la polio, un vecchio in lacrime ci raggiunge correndo, non riusciva a parlare. Allora tornammo al campo, quegli uomini erano tornati e avevano mutilato a tutti quei bambini il braccio vaccinato. Stavano lì ammucchiate… un mucchio di piccole braccia, e mi ricordo, che io ho… io ho pianto come… come una povera nonna. Avrei voluto cavarmi tutti i denti, non sapevo nemmeno io cosa volevo fare. Ma voglio ricordarmelo non voglio dimenticarlo mai, non voglio dimenticarlo mai.
E a un certo punto ho capito, come se mi avessero sparato, mi avessero sparato un diamante, un diamante mi si fosse conficcato nella fronte e mi sono detto: «Oh Dio che genio c’è in quell’atto, che genio!». La volontà di compiere quel gesto, perfetto, genuino, completo, cristallino, puro. Allora ho realizzato, che loro erano più forti di noi, perché loro riuscivano a sopportarlo, non erano mostri, erano uomini. Squadre addestrate. Questi uomini avevano un cuore, avevano famiglia, avevano bambini, erano colmi d’amore, ma avevano avuto la forza… la forza di farlo. Se avessi avuto dieci divisioni di uomini così, i nostri problemi sarebbero finiti da tempo.
C’è bisogno di uomini con un senso morale e allo stesso tempo capaci di utilizzare il loro primordiale istinto di uccidere, senza sentimenti, senza passione, senza giudizio. Senza giudizio, perché è il giudizio che ci indebolisce. Sono preoccupato che mio figlio non capisca quello che ho cercato di essere e se devo essere ammazzato, Willard, vorrei che qualcuno andasse a casa mia per dire tutto a mio figlio, per spiegare cosa sono stato, cosa ho fatto… perché non c’è nulla che detesti di più dell’odore marcio delle bugie. E se lei mi capisce, Willard, lei farà questo per me.
É il celebre monologo del Colonnello Walter E. Kurtz, Marlon Brando in Apocalypse Now, che rappresenta Heart of Darkness, Cuore di tenebra, una vera e propria icona della degenerazione della natura umana di fronte all’indicibile orrore. Robert Duvall nei panni di Bill Kilgore arriva al cospetto dell’immondo fortino di Kurtz dopo aver surfato sulla melma del fiume Mekong, anch’essa simbolo delle difficili e immonde esperienze della guerra del Vietnam.
Quando Brando si presentò sul set di Apocalypse Now, nelle Filippine nel settembre 1976, Coppola capì subito che avrebbe dato problemi.
Infatti, l’attore espresse subito al regista le proprie perplessità riguardo al personaggio da interpretare. Non capiva il romanzo Cuore di tenebra e, di conseguenza, non comprendeva nemmeno il proprio personaggio. Coppola bloccò la produzione del film per due settimane – come affermò l’attore Dennis Hopper che prese parte al film interpretando un fotografo eccentrico alla corte del colonnello disertore – e si ritirò su una barca, insieme a Brando.
Lesse con l’attore il romanzo di Joseph Conrad in modo da chiarire i dubbi a chi lo avrebbe dovuto trasporre in Apocalypse Now. L’attore si presentò nuovamente sul set, pronto per il ruolo.
Brando, all’epoca, era già calvo e sovrappeso, non si lavava ed era costantemente ubriaco e fatto di cocaina. Sembra che Brando faticasse addirittura a memorizzare la parte, così Coppola dovette filmare anche le improvvisazioni, modificare la sceneggiatura di conseguenza e suggerirgli le battute fondamentali tramite auricolare. Come se non bastasse, dovette riprenderlo nell’ombra perché non voleva mostrarsi grasso.
Brando fu solo uno degli aspetti problematici che caratterizzarono le riprese di Apocalypse Now.
Chiedete a chiunque fosse là fuori con noi, tutti vi diranno che abbiamo combattuto una guerra,
dichiarò Hopper. Brando, ad esempio, manteneva una rigorosa dieta quotidiana basata su: una cassa di birra, mezzo gallone di liquore e parecchia cocaina. Per non parlare di Martin Sheen, che fu deliberatamente mantenuto ubriaco per due giorni, al solo scopo di girare la scena iniziale, in hotel, esprimendo il giusto grado di rabbia e cattiveria.
Alcol e droghe furono certamente un problema significativo, ma ce ne furono anche molti altri. Le Filippine furono colpite da un tifone che costrinse a sospendere le riprese e tornare a casa. In quel frangente, Sheen ebbe un esaurimento nervoso e un attacco cardiaco a causa dello stress e degli eccessi.
Avevamo accesso a troppo denaro e troppo equipaggiamento. A poco a poco impazzimmo.
Dichiarò Coppola. Il regista stesso, ridotto sul lastrico dal lievitare delle spese per la realizzazione del film, minacciò il suicidio tre volte.
Il budget stanziato inizialmente era di 12 milioni di dollari, ma Apocalypse Now finì per costarne tre volte tanto e Coppola fu addirittura costretto a ipotecare la casa.
Ci vollero due anni solo per il montaggio. Coppola, però, che credeva ciecamente nel film, decise di portarlo comunque a Cannes, in versione beta. Il film, seppur incompleto, meritò la Palma d’Oro ex-aequo con Die Blechtrommel (1979, Il tamburo di latta).
Fu anche premiato con due Oscar su otto nomination ricevute: alla fotografia di Vittorio Storaro e al sonoro. Quest’ultimo, in particolare, fu un premio vinto grazie alla squadra guidata dal sound designer Walter Murch, capace di ideare il surround 5.1, diventato, da quel momento, uno standard delle sale cinematografiche.