Francesca Chiacchio: «Vi sentite un cerchio o un quadrato?»
Eccoci, quindi, al quarto appuntamento di Arte in una domanda, rubrica di Linda Ferrari per RIS8Lifestyle. Questa volta ha incontrato Francesca Chiacchio, la compagna di banco che avreste voluto.
Francesca Chiacchio è Italiana, ma vive a Bruxelles. I suoi colori sono il giallo, il verde il rosso ed il blu. Il suo è un gioco molto serio perché nelle sue opere si fa ancora quello che ci stiamo lentamente dimenticando: si interagisce.
Il lavoro di Francesca Chiacchio è una commistione tra pura poetica, performance e grafica anni ’70.
Un mondo fatto di sistemi di codici e colori che, una volta decifrati, spalancano le porte della mente creativa e risvegliano il fanciullo dentro ognuno di noi.
Questa è la domanda che Francesca Chiacchio ha rivolto a me e a mio figlio Marcello in un bel pomeriggio, senza pensieri, mentre passeggiavamo sulla Darsena nel settembre del 2017.
Francesca Chiacchio è piccola, ha bellissimi occhi chiari e un sorriso che ti fa sentire a casa. Per quel progetto la sua base era un’edicola, L’Edicola Radetzky, e promuoveva la colorazione del paesaggio utilizzando t-shirt e cuffie da piscina.
Chi voleva partecipare a questo lavoro doveva scegliere la sua forma e il suo colore; andare sull’altro lato della Darsena e farsi fotografare in una posa che ricordasse un cerchio o un quadrato. Ovviamente abbiamo partecipato ed è diventata una delle nostre artiste preferite.
L’abbiamo seguita per un’altra performance, qualche mese dopo, in Triennale, intitolata X Modi per colorare l’abitare. Il lavoro era un gioco, uno spettacolo, una divertente sinfonia collettiva; un’immagine vivente e, soprattutto, un libro da colorare.
Cara Francesca, potrei passare un giorno intero a parlare del tuo lavoro, che amo moltissimo, ma ho una domanda per te:
Quali sono le radici, le memorie, su cui si fonda il lavoro di Francesca Chiacchio?
Nella speranza di rivedere qualche tua nuova opera, soprattutto in un momento come questo, dove l’arte deve essere anche cura.
Francesca Chiacchio: «Ciao Linda! Ti ringrazio molto di avermi descritta così! Con emozione e uno sguardo ancora sorpreso. Ho un percorso che, a prima vista, sembra confuso, ma che, da pochi anni, ho imparato a guardare con logica.
Ho studiato Storia dell’Arte Contemporanea all’Università La Sapienza di Roma. All’epoca desideravo raccontare, descrivere, mettere insieme i linguaggi dell’arte e trasmetterli.
Terminati gli studi avevo voglia di utilizzare quel linguaggio da studiosa per curare dell’esposizioni in luoghi non usuali. Insieme ad altri curatori – tra i quali cito Michela Sacchetto – abbiamo sperimentato la radio, il tavolo durante una cena e la conversazione come contesti espositivi. Prima ancora, l’ambiente domestico come scena artistica. Parallelamente, collaboravo con Francesco Bertelé nel progetto della Carrozzeria Margot, a Milano, un luogo per provare nuove forme di produzione.
Dodici anni fa mi sono trasferita a Brussels. Lì ho potuto sperimentare la curatela, in termini più seri e ordinari, nello spazio della galleria della Scuola d’Arte ERG.
A un certo punto ho abbandonato la curatela e ho avuto la fortuna di entrare nell’atelier di un’artista d’eccezione, Joëlle Tuerlinckx. Per tre anni ho lavorato nel suo atelier come assistente del suo archivio celebrale, la cui missione è quella di poterlo trasmettere ai posteri. Nel frattempo sono diventata una delle sue performer per l’opera That’s it! attraverso la quale ho appreso un linguaggio scenico fatto di codici e improvvisazioni. Soprattutto ha risvegliato in me la voglia di andare oltre la teoria e la curatela per lanciarmi in una pratica personale. Nel 2014 mi sono inscritta a un corso universitario in Arti Performative, ISAC.
Per due anni ho potuto dare forma a tutte le idee che mi passavano per la mente. Ho messo finalmente in pratica le pulsioni, le citazioni, le idee che avevo nutrito fin dagli anni universitari.
Quel corso mi ha permesso di avere un pubblico sempre pronto a porre domande, criticare o complimentarsi. Un pubblico composto dai miei compagni di corso, nello spazio della scuola, che per me rappresentava una sorta di grande atelier dove tutto era possibile, anche commettere errori.
Per concludere i due anni, ho creato uno spettacolo che ho chiamato IlPalinsesto (PREMI QUI) e che oggi guardo come la sintesi di tutto quello che ho realizzato fino ad ora.
Ho cercato nel termine palinsesto una scusa per giustificare la discontinuità del mio lavoro. Come nella televisione, dove accettiamo che tutto possa susseguirsi senza una logica apparente.
Oltre allo spettacolo, ho scritto una tesi nella quale mi sono divertita a storpiare la teoria – ho giocato con la metodologia che avevo appreso all’università – e a concepire le pagine del libro come una scena per uno spettacolo o uno spazio per una mostra. Scrivendo, cancellando e sottolineando per spiegare le mie intenzioni a un comitato di giuria, mi sono accorta che:
Sì, provengo da un contesto universitario, ma sono anche figlia della televisione degli anni ’80 e ’90. Fatta di colori e forme eccentriche in trasmissioni come Non é la Rai e di giochi assurdi come Giochi senza frontiere.
Per rispondere alla tua domanda sono partita da lontano perché, a distanza di anni, credo che il mio lavoro si sia nutrito di tutte queste esperienze.
Una tavolozza di colori e di competizioni assurde e insensate viste con gli occhi di una bambina curiosa. La curatela come coreografia. Una mostra concepita come un’esperienza corporea dove le opere d’arte esposte sono attori di uno spettacolo.
Tutto questo su una base teorica e visiva portata dalla Storia dell’Arte, che mi ha nutrita di immagini, simboli, concetti e riflessioni che mi accompagnano ancora oggi.
Ho amato potermi immergere nella logica ludica di Bruno Munar; nell’uso dei colori della Bauhaus; nell’ironia di Roman Ondak; nei risultati laboratoriali di Manuel Casanueva; nella narrazione di Warja Lavater; nell’uso della deambulazione dei Situazionisti; nei tessuti di Franz Erhard Walther; nell’assurdo storico di Beckett e nell’assurdo contemporaneo di Jerome Bel. Ancora, nell’esperienza The Store di Claes Oldenburg e Womanhouse di Judy Chicago e Miriam Schapiro nel 1972, per citarne alcuni…
…e la partecipazione? Il mio percorso parte da osservatrice. Si mette in pratica come coordinatrice fino a diventare autrice, ma senza gli altri, il pubblico, i nuovi attori della mia opera, il mio lavoro non esisterebbe.
Ecco perché concepisco un’opera partecipativa basata sul dialogo ludico e ironico che si rivolge a chi ha voglia di fermarsi a giocare, come hai fatto tu con Marcello».
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