british jazz invasion

La British Jazz Invasion sta abbattendo tutti i confini

Forse avrete notato un numero sempre più elevato di inglesi, spesso dai nomi esotici di chiara origine africana, occupare i palchi più prestigiosi del jazz internazionale, soprattutto durante i festival estivi. Non ultimi la quindicesima edizione di Jazz:Re:Found, tra le prime organizzazioni a portare in Italia un certo tipo di sonorità, e il prossimo JazzMi, che scandirà l’autunno Milanese secondo tradizione. Gli ultimi dieci anni circa, infatti, hanno visto un’incredibile crescita degli artisti e dei successi della nuova British Jazz Invasion, sia in casa propria che a livello internazionale.

Quello che veniva superficialmente raccontato come movimento musicale underground, infatti, si è ritrovato improvvisamente sotto i riflettori, grazie a una serie di azioni sociali, artistiche e politiche congiunte.

Un lavoro che, nel corso degli anni, ha trasformato il British Jazz in una scena in grado di abbracciare un’ampia distesa di espressioni musicali, a loro volta capaci di introdurre il mondo a una nuova generazione di giovani, spesso di colore e spesso donne. 

Un rinascimento artistico nato a metà strada tra la casuale spontaneità e gli sforzi politici di creare uno spazio sociale fino a quel momento inesistente. Un suono che vive di una forza creativa così trascinante da riuscire contemporaneamente a riappropriarsi delle origini del jazz e a rifiutarne gli intellettualismi. Una new wave che ha contribuito a formare un nuovo pubblico, giovane ed esigente.

Si è iniziato a parlare di quella che The Guardian definì British Jazz Invasion nel 2015.

Un fenomeno nato, prima di tutto, a Londra e animato da ragazzi in grado di proporre una nuova rilettura, innovativa ma sempre elegante, dei dettami del genere. La consacrazione definitiva per questa nuova scena arrivò, però, tre anni dopo. Nel 2018, infatti, uscì We Out Here, una compilation pubblicata non a caso dalla Brownswood Recordings, l’etichetta che più ha contribuito a far conoscere il fenomeno, pubblicando gli album di quasi tutti i musicisti interessanti del movimento – e trasferendone più di qualcuno a Blue Note. 

Dietro quella raccolta c’era Gilles Peterson, il proprietario della stessa label e di altre etichette molto importanti del passato. È lui a essersi meritato sul campo i gradi di padrino della scena, scovando e lanciando tantissimi giovani musicisti. Fu lui, ad esempio, a insistere per far uscire Black Focus, album di Yussef (Dayes) Kamaal (Williams) che può essere considerato il manifesto della nuova scena. Un capolavoro capace di  sincopare gli insegnamenti dei numi tutelari del genere attraverso groove metabolizzati da altri contesti musicali, sociali e culturali.

Nel 2018, lo stesso anno della prima compilation e due anni dopo l’uscita di Black Focus, l’Office for National Statistics inglese stabilì definitivamente il primato di Londra tra le città con il maggior numero di abitanti nati in una nazione diversa da quella di residenza. Aveva superato anche New York. Parliamo, quindi, di una rivoluzione culturale nata grazie all’unicità di Londra. Una metropoli in cui le minoranze non sono mai state tali e sono in continua crescita.

Non parliamo solo di una tradizione coloniale che affonda le proprie radici anche nel jazz – uno dei primi grandi jazzisti inglesi è stato il trombettista Leslie Thompson, nato a Kingston e trasferitosi a Londra durante gli anni Trenta – , ma anche di storia attuale.

Una storia, quella della nuova British Jazz Invasion, che risale al 1991, anno in cui Gary Crosby, contrabbassista jazz londinese ma di origini giamaicane, fondò con Janine Irons, educatrice e manager, Tomorrow’s Warriors.

Tomorrow’s Warriors è un’innovativa organizzazione per l’educazione alla musica jazz e lo sviluppo degli artisti. Una scuola che fornisce istruzione musicale gratuita e di alta qualità a giovani di tutte le estrazioni sociali e culturali. Si impegna, quindi, a ridurre le diversità attraverso il jazz, con un’attenzione particolare a quelle etnie derivate dalla diaspora africana; oppure a coloro le cui circostanze finanziarie, o di altro tipo, potrebbero impedire l’opportunità di intraprendere una carriera nell’industria musicale.

Non è un caso, quindi, che molti dei musicisti che oggi popolano questa scena crescente siano, appunto, di colore e ci sia un elevato numero di donne che, spesso, non trovano nelle proprie culture d’origine un valido sostegno.

Crosby ha tratto ispirazione dall’essere stato un membro dei Jazz Warriors, un gruppo di musicisti con sede a Londra che, negli anni ’80, mise in mostra molti giovani talenti britannici di colore, capaci di raggiungere un successo internazionale.

Tomorrow’s Warriors, che ha una composizione multirazziale, fornisce una piattaforma per i giovani musicisti che desiderano intraprendere una carriera nel jazz e mira a:

«Ispirare, promuovere e far crescere una vivace comunità di artisti, pubblico e leader che, insieme, trasformeranno le vite delle generazioni future aumentandone le opportunità, la diversità e l’eccellenza attraverso il jazz».

Alunni di Tomorrow’s Warriors, non a caso, hanno vinto numerosi premi. Ha formato, tra i tanti, alcuni dei talenti più luminosi della nuova scena jazz londinese: Shabaka Hutchings, Nubya Garcia, Femi Koleoso, Joe-Armon Jones, Zara McFarlane, Sheila Maurice-Grey, Moses Boyd, ecc. ecc.

Irons, un’ex cantante diventata manager e produttrice, e il suo partner Crosby hanno anche avviato un’etichetta, la Dune Records, che attinge al talento di Tomorrow’s Warriors, inclusi i diplomati dell’organizzazione come Denys Baptiste, J-Life e Soweto Kinch.

Grazie al suo lavoro, Crosby ha meritato un OBE (Order of the British Empire), una delle più alte onorificenze del Regno Unito riconosciute a un civile. É grazie a Tomorrow’s Warriors e ad altre importanti iniziative seguite a quel fatidico 1991, infatti, che, a Londra come in tutta l’Inghilterra, si è acceso un nuovo fuoco, capace di rompere gli schemi precedenti e di ammaliare il mondo intero.

Il luogo dove nasce e prospera la new wave of British Jazz è la parte Sud di Londra. É lì che sono andati a suonare tra i migliori giovani artisti americani come Kamasi Washington. É lì che esistono luoghi come il  centro di sviluppo Tomorrow’s Warriors, appunto.

Peckham è il nome del quartiere africano di Londra, luogo nevralgico di questo nuova ondata di British Jazz. Ancora una volta, l’Inghilterra colonizza la musica. La nuova scena è pulsante come la sua città natale, senza tralasciare nessuna delle sue contraddizioni. Non è nata per caso. La British Jazz Invasion è frutto di un lavoro intelligente, costruito sull’inclusione, sulla fusione delle culture.

Non si sono limitati a dare fiato alle trombe (perdonate la battuta), hanno costruito un vero e proprio patrimonio fondendo diverse culture. Londra è un porto dove trovano attracco civiltà diverse, capaci di mescolarsi oltre i problemi del passato, che non si dimenticano ma servono d’insegnamento. É uno dei pochi esempi ben riusciti di quella metropoli contemporanea che, spesso, si millanta di voler trasformare in laboratorio umano e artistico senza poi fare nulla di concreto. A Londra si sono uniti privati, istituzioni e comunità. Tutti insieme. Hanno costruito un patrimonio culturale di inestimabile valore. Qui da noi, in Italia, si parla ma non si fa mai nulla. Ci provano solo realtà piccole e coraggiose, che non hanno mai l’appoggio che servirebbe dalle istituzioni, tanto da esser costrette, spesso, ad abbandonare i sogni di gloria.

La nuova British Jazz Invasion, quindi, è diventata un veicolo d’espressione per musicisti, spesso giovanissimi, di tutte le estrazioni sociali. In modo particolare, per i discendenti delle ex colonie africane e caraibiche.

Per molti, il jazz era qualcosa di inaccessibile, che altre persone ascoltavano. Roba da intellettuali. Negli ultimi anni, invece, il genere ha subito una seria revisione, anche grazie ad artisti come Kamasi Washington che, come scrivevo, dagli States, hanno portato il proprio sound dal vivo proprio a Peckham: «Gli artisti non sembrano superstar inaccessibili: vengono tutte le sere nei locali per le jam e per improvvisare», afferma a The Guardian la conduttrice radiofonica Teju Adeleye.

Quando, infatti, Kendrick Lamar ha pubblicato il suo album di riferimento To Pimp a Butterfly, nel 2015, ha liberato il jazz, che si è unito all’hip-hop e ha raggiunto la nuova generazione. Non è stato né il primo, né l’unico tentativo di mischiare il jazz ad altre influenze. É stato il primo, però, a spalancare realmente una breccia nel cuore dei giovani.

Il jazz stesso, per propria definizione, non esiste. É improvvisazione attorno a un tema melodico, animata da un impulso ritmico chiamato swing. Lo swing, a propria volta, non si può definire. Diciamo che il jazz, per colpa degli intellettuali, si era chiuso in una torre d’avorio governata dallo snobismo e dall’intellighenzia. Aveva perso la propria identità popolare, liquida, per riempire i salotti di lusso e riempire discorsi vacui con tanto rassicuranti quanto incomprensibili definizioni.

Grazie a questa nuova ondata british, il jazz non solo è tornato immediatamente a essere più accessibile ma, interpretato da personaggi affascinanti, sembra ancora più bello. Si è evoluto in un nuovo ed emozionante movimento che ha tratto ispirazione, oltreoceano, da artisti come Lamar, Thundercat e Kamasi Washington, appunto. Sono stati loro a dare il via a un nuovo sperimentalismo inglese, capace di raggiungere un pubblico molto più giovane e diversificato, che ha perso la puzza sotto al naso.

La loro musica attinge liberamente da altri generi, siano essi hip-hop, new-soul, suoni da club britannici come il broken beat o altro…

A differenza delle ondate precedenti, infatti, questi musicisti hanno tra i 20 e i 30 anni e provengono da background diversi. Hanno creato la propria comunità al di fuori delle principali etichette e sale da concerto. È interessante notare come si tratti quasi sempre di persone che si sono avvicinate al jazz dopo aver avuto degli imprinting molto diversi in passato. C’è chi ha avuto il primo approccio con la musica in chiesa, chi ha conosciuto il mondo dei suoni direttamente da genitori musicisti, oppure chi è rimasto folgorato dal rap e si è incastrato in un continuo scambio reciproco tra questi due mondi.

Un incessante processo di arricchimento che ha contribuito a rendere questa ennesima rivisitazione del jazz una materia fluida, difficile da definire e incasellare, anche all’interno del singolo genere.

Un artista come Shabaka Hutchings, ad esempio, rappresenta in modo perfetto questa musica multiforme e aperta a farsi ispirare dai suoni del resto del mondo. Hutchings è nato a Londra ma è cresciuto nelle Barbados, iniziando a nove anni a suonare il clarinetto. Non ha ascoltato mai solo jazz, facendosi influenzare anche dal rap americano e dai ritmi locali prima di far ritorno in Inghilterra. Lì ha trasferito l’eterogeneità dei suoi ascolti che è percepibile nella sua musica:

«Quelli che io venero come i miei punti di riferimento nella musica jazz hanno sempre detto che non amano essere incasellati in quella parola. È limitante: gli mostra più quello che non possono essere rispetto a ciò che possono diventare. Quindi, perché dovrei considerarmi un musicista che ha delle limitazioni?».

Tiene a rimarcare Shabaka riprendendo l’idea di Duke Ellington che definì il proprio lavoro: «Musica classica americana».

Hutchings non è che l’alfiere di una generazione di musicisti figli di immigrati che non ha perso il contatto con le proprie radici e le sfrutta per creare una musica unica e dall’impronta multiculturale.

La forza del jazz inglese, infatti, sta nella sua modernità, nel voler essere una musica aperta e globale, in grado di essere profonda e capace di parlare indirettamente della società in cui nasce e matura:

«In questo momento, in Inghilterra il jazz è diventato cool, ti può capitare di entrare in un locale e vedere un gruppo di ventenni che improvvisa, una cosa che sarebbe sembrata anacronistica fino a qualche anno fa. Ma soprattutto c’è un pubblico di giovani che viene a queste serate e le riempie pagando, spesso parecchio».

ll British Jazz, infatti, non si trova solo ai concerti ma, proprio come ai tempi dell’Acid Jazz, anche nei locali notturni.

Dj britannici come Bradley Zero e Floating Points hanno liberato il jazz nei Club, al punto che, oggi, non è raro che un viaggio di 10 minuti di Pharaoh Sanders faccia ballare una folla di ventenni assolutamente riconoscenti.

É notevole, inoltre, quanto sia prolifica questa ondata, con musicisti jazz che si infiltrano sui palchi più prestigiosi del mondo, firmano per etichette indipendenti o portano il loro suono all’estero. L’enorme volume di talenti viene riconosciuto in tutto il mondo.

«Ovunque io sia in viaggio, che sia negli Stati Uniti, in Argentina, in Giappone o in tutta Europa, tutti mi parlano dell’invasione britannica del jazz. Sentono che questo è un movimento molto importante».

Afferma Gilles Peterson che, come scrivevo, con Brownswood Recordings, creata nel 2006, è uno dei principali scopritori di talenti al mondo. Francese di nascita, durante la propria carriera ha svolto un ruolo fondamentale nella promozione di generi come il jazz, l’hip-hop e la musica elettronica.

Ha iniziatola la propria attività nelle stazioni radio pirata, per poi unirsi alle stazioni legali di Londra. Prima la neonata Jazz FM, poi la stazione di musica dance Kiss FM. Nel 1998 è stato assunto dalla BBC Radio1 e, nel 2012, ha iniziato a ospitare un programma di tre ore il sabato pomeriggio su BBC Radio6 Music. Il suo programma radiofonico, oggi, viene trasmesso in sette paesi europei.

Nel 2016 ha lanciato la stazione radio online Worldwide FM con il co-fondatore di Boiler Room e conduttore Thristian Richards. Ospita anche mix e nuova musica sulla sua pagina SoundCloud, dove ha oltre tre milioni e mezzo di follower. È la mente dietro a diversi eventi che celebrano la musica che sostiene attraverso i suoi dj set e programmi radiofonici. Dal 2005 ha ospitato gli annuali Worldwide Awards a Londra e Worldwide Festival a Sète. Nel 2019 ha lanciato il nuovo festival We Out Here (vi ricorda qualcosa?) nel Regno Unito.

La British Jazz Invasion non è nata dal nulla. I musicisti sono spesso cresciuti insieme. Si confrontano costantemente nei progetti reciproci e si esibiscono insieme in una serie di live e progetti paralleli.

Ci sono figure, appunto, che hanno saputo accompagnarli nella maniera migliore. «Avere spazi a prezzi accessibili dove le persone possono andare e sperimentare di fronte al pubblico è importante. Promuove qualcosa di genuino in una città in cui tutto è guidato da iniziative aziendali», spiega Teju Adeleye, che è stata la conduttrice di Floating Roofs su NTS Radio, uno spettacolo quindicinale che esplorava il jazz contemporaneo attraverso una miriade di ospiti.

Oltre agli enti di beneficenza per lo sviluppo degli artisti che hanno nutrito molti membri della nuova ondata, come Tomorrow’s Warriors appunto, le jam session sono cruciali nello sviluppo della scena e, non a caso, spopolano sempre più. È un’etica condivisa anche da JazzRe:Freshed, ad esempio, la società di promozione di Justin McKenzie e Adam Moses diventata etichetta, che ha svolto un ruolo enorme nel supportare il nuovo jazz, offrendo ai musicisti un palcoscenico nel Regno Unito e all’estero.

Forse la cosa più eccitante, però, è la sensazione che questa generazione stia strappando il jazz ai suoi guardiani e lo stia facendo proprio.

Non tutti questi musicisti, infatti, si sono formati in modo classico o formale. Questo, probabilmente, genera un’energia accessibile a tutti. Musicisti anti-eroi che guidano la dolce vendetta di una musica nata per essere per tutti, ma che è stata rinchiusa, per troppo tempo, in una torre esclusiva: i giovani hanno liberato il jazz.

«I confini di genere sono più fluidi. Non ci si inchina più alla polizia del jazz».

Chiosa Soweto Kinch, affermato sassofonista che gestisce, da anni, anche la jam session di Birmingham The Live Box.

I ragazzi della British Jazz Invasion hanno una fiducia importante, rafforzata dal fatto che il loro pubblico vuole continuare ad ascoltare qualcosa di originale.

Ecco perché la British Jazz Invasion non finirà per essere un semplice episodio, ma è arrivata per restare. Nasce da un’esigenza. Nasce da un incontro di culture diverse. È musica di qualità e longevità. Non è nuova musica usa e getta. Del resto, per concludere con le parole di Gilles Peterson:

«L’ultima cosa di cui il jazz aveva bisogno era un’altra versione di Summertime o Feeling Good. Basta fare musica originale: è quello che la gente vuole».

Articolo di Tommaso Lavizzari


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