yussef dayes

Yussef Dayes ci racconta la Black Classical Music

Il jazzista britannico Yussef Dayes ha pubblicato il suo primo album solista intitolato Black Classical Music. Un lavoro attuale e decisamente diverso da quanto realizzato in precedenza.



Educato dai suoni jazz degli anni ’60 del padre musicista. Allievo del bulldozer Billy Cobham all’età di 10 anni. Yussef Dayes si è affermato come uno dei leader indiscussi della turbolenta e molto creativa scena jazz del sud di Londra.

Dopo essersi fatto un nome, insieme a due dei suoi fratelli, nell’esplosivo gruppo afrocentrico United Vibrations e dopo aver affermato le proprie pretese di ridefinire il jazz – con il giovane producer/DJ Kamaal Williams e il chitarrista Tom Misch -, questo incredibile musicista si rinnova con un primo album solista che rischia di diventare una pietra miliare, un nuovo manifesto. Seppur, per alcuni aspetti, non convinca del tutto, almeno dopo un paio di settimane di ascolti. Questo non significa che, più avanti, il metabolismo non possa aiutare a percepirne sfumature diverse.

Un comunicato stampa che ha preceduto l’uscita di Black Classical Music ha presentato Yussef Dayes nell’intento di ripercorrere le origini del jazz.

Nato a New Orleans, partorito dal ventre del fiume Mississippi, immerso nel gumbo pot dei Caraibi, nella cultura sudamericana e nei rituali africani. Si è incarnato in una stirpe di musicisti come Miles Davis, Rahssan Roland Kirk, Nina Simone, John Coltrane, Louis Armstrong. Una musica in continua evoluzione, che non pone limiti al proprio potenziale.”

In Black Classical Music, Yussef Dayes afferra questa definizione del jazz e la amplifica in modi inaspettati.

Prima dell’uscita stessa dell’album, non a caso, lo stesso Dayes si è preso la briga di condividere alcune delle influenze del disco.

Yussef Dayes è indefinibile come lo stesso modo che ha di pensare la musica e di vivere il jazz. Non riesce a stare fermo abbastanza a lungo da essere adeguatamente descritto. Tra il suo lavoro da solista, gli album in collaborazione e le uscite con altri musicisti, la sua onda d’urto si estende ormai in lungo e in largo.

I suoi progetti più celebri, almeno fino a oggi, sono senza dubbio Black Focus, che ha pubblicato con Kamaal Williams nel 2016, e What Kinda Music, che ha realizzato nel 2020 con Tom Misch.

Nel mezzo di una generazione di musicisti jazz pionieristici in Inghilterra, questi due capolavori hanno posto Yussef Dayes sul trono. In un ambiente musicale in cui generi, culture ed espressioni si mescolano come mai prima d’ora, il suo album di debutto Black Classical Music sarà ricordato, indipendentemente dai gusti personali, come una Polaroid della new wave del British Jazz.

Dayes è stato ampiamente celebrato per i lavori realizzati con gli altri musicisti e con il suo debutto da solista parrebbe volersi prendere tutta la luce dei riflettori. Niente di più sbagliato. Non sarebbe un progetto di Yussef Dayes, né una fedele istantanea della scena jazz UK, senza l’aiuto di alcuni amici. Tra gli ospiti del disco figurano la  sua band ormai fidata (Rocco Palladino, Charlie Stacey, Venna, Alexander Bourt) e altri artisti, tra cui, Chronixx, Masego, Jamilah Barry, Tom Misch, Elijah Fox, Shabaka Hutchings, Miles James, Sheila Maurice Grey, Nathaniel Cross, Theon Cross e i Chineke! Orchestra: la prima orchestra professionale europea composta da musicisti etnicamente diversi.

Tracciare una linea di continuità tra le precedenti uscite di Dayes e questo album ha sicuramente un senso.

Black Classical Music è un lavoro in studio. Utilizza gli strumenti della produzione, così come quelli della performance, per spaziare tra una vasta gamma di stili e approcci attraverso 19 tracce dense e tentacolari. Se la variazione della trama non avviene sempre all’interno delle singole tracce, a volte monotone, si verifica sicuramente nel susseguirsi dei brani, che talvolta lascia spiazzati. C’è, come scrivevo, una vasta gamma di influenze in mostra, dalla conoscenza dello sviluppo del jazz contemporaneo fino all’influenza nervosa della musica elettronica, in alcuni tra i pattern di batteria più sincopati di Dayes. Si avverte il tentativo di raccontare la natura del jazz più in generale: una chiesa in costante espansione, grazie al coinvolgimento della musica contemporanea, e non un genere immobile nel tempo, impolverato e intoccabile.

Dayes sottolinea l’importanza dell’istruzione, del tramandare certi valori alle generazioni successive. Forse stiamo ascoltando un semplice disco dedicato, neanche troppo velatamente, alla sua giovanissima figlia. Una sorta di antologia musicale, quindi, riferita a un certo lignaggio culturale di cui diventa testimone.

L’album si apre con la title track Black Classical Music, un brano potente, che esprime urgenza e funge quasi come dichiarazione d’intenti.

Dopo quella che potrebbe sembrare una fanfara di Buckingham Palace, infatti, l’ascoltatore viene trascinato in un mercato etnico, rumoroso e affollato, del sud di Londra, dal ritmo decisamente frenetico. Camminando tra la folla di questo mercato, ogni bancarella sembra riflettere una delle canzoni di questo album.

Se esiste una linea coerente che attraversa Black Classical Music è l’esplorazione del rapporto tra batteria e basso nel tentativo di creare groove coinvolgenti.

Anche quando le linee di basso, infatti, suonano piuttosto elementari, come in Gelato, appaiono comunque in prima linea. A volte, la musica classica nera assomiglia molto alla musica dance o addirittura alla dub, nel mondo costruito da Yussef Dayes. Ciò che accade al di sopra del nucleo della batteria e del basso, infatti, si sposta e varia tra una gamma di suoni diversi, attraverso melodie a volte prepotenti, talvolta dimesse. La musica funziona meglio quando gli arrangiamenti sono ricchi e dettagliati, come in Raisins Under The Sun, in cui Shabaka Hutchings lascia un segno importante come ospite. 

Le parti di batteria di Dayes sono talvolta complesse e agitate, come nella straordinaria sezione centrale di The Light, in cui l’influenza degli artisti drum&bass si avverte forte e chiara. Altre volte, il suo modo di suonare è notevolmente e insolitamente sobrio. É il caso delle atmosfere di Bird Of Paradise, in cui la batteria si rilassa e funge da semplice supporto. C’è la sensazione, invece, che le tracce ritmiche della parte centrale del disco siano state registrate in continuità.

Il set delle prime cinque registrazioni è un jazz piuttosto convincente, intriso di soul, musica caraibica e persino hip-hop, impeccabile anche a livello esecutivo e di scelte. Qualcosa inizia ad andare storto con la voce di Pon di Plaza, che precede una serie di registrazioni strumentali più pallide (Chasing the Drum, Birds of Paradise), alcune delle quali sono più vicine a un generico nu-jazz da ascensore. 

Yussef Dayes ha registrato materiale straordinario, sebbene non lo abbia sempre adeguatamente sfruttato in Black Classical Music.

La situazione migliora nuovamente attorno a Jukebox e, successivamente, in Tioga Pass, con Rocco Paladino. Nel finale di Black Classical Music tutto torna come all’inizio, anche se l’impressione che il set, denso di idee, abbia perso trasporto emotivo, resta viva a fine ascolto. È un peccato, perché è un album degno di nota che non sembra avere in alcune scelte la maturità del capolavoro assoluto. 

Le apparizioni degli ospiti risultano essere i momenti migliori del disco. La giocosa chitarra di Tom Misch in Rush porta un incrocio tra melodie pop orecchiabili e jazz energico, ma il momento più bello si trova in The Light, come accennavo poco sopra, seppur per altri motivi. Qui, la figlia del protagonista fornisce una delle poche esibizioni vocali dell’album, sotto forma di quelle che sembrano essere alcune delle prime conversazioni tra padre e figlia. Lo sfondo di cascate simili ad arpe, le linee di chitarra sonore e le deliziose linee di basso: The Light è un brano per cui c’è da commuoversi.

Nonostante alcuni bellissimi momenti, Black Classical Music non è un album impeccabile.

74 minuti complessivi, in cui diversi brani avrebbero potuto essere omessi per rendere l’esperienza complessiva più intensa e fluida. Gelato è piatto rispetto al resto dell’album. Il groove altrimenti buono di Marching Band non è portato abbastanza bene dal riff vocale apparentemente improvvisato di Masego (il gorgheggio iniziale, poi, fa andare di traverso tutto il resto del pezzo). 

A volte la produzione sembra un po’ claustrofobica: ci sono momenti in cui sembra che la musica debba volare ma non lo fa. A volte ci si aspetterebbe aperture più esplicite. Si avverte, comunque, l’attenzione maniacale che mette Dayes in ogni groove e nell’umore generale del disco. C’è il desiderio di coinvolgere il pubblico e questo rende le 19 tracce ipnotiche: lo si ascolta volentieri a ripetizione.

Senza dubbio, gli aspetti positivi superano quelli negativi. I fenomenali ritmi di batteria di Daye sono ancorati a colpi solidi come la roccia e morbidi come le tute che indossa. I musicisti ospiti accuratamente selezionati creano un paesaggio sonoro colorato e mai compiacente. Non è quello che ci si aspettava, forse… ma, in realtà, cosa ci si aspettava?

Articolo di Tommaso Lavizzari


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