Sono 40 anni che amo il calcio. Sono ormai 11 anni circa che me ne occupo anche come parte del mio lavoro. La prima diretta in radio, nel 2011, diede il là anche a questo ormai lungo capitolo della mia vita. Attraverso C’era una volta O Rei, e tutto quello che ne è seguito, ho sempre e solo raccontato il mio modo di osservare le cose. Per me il calcio è lo specchio fedele della società e, spesso sbagliando, mi piace leggerlo sempre in veste POP, come capì per primo l’amico Giovanni Tarantino nel suo libro Calcio POP, appunto, in cui ci definì tali. Non ho mai amato, infatti, il calcio romantico in sé, come definizione, come universo cui ambire. Come etichetta che mi porto dietro da 11 anni controvoglia. Sì, perché amo certe cose ma non disdegno neanche la Superlega e questo non mi fa sentire sbagliato.
Penso, infatti, che il calcio romantico non esista. Il calcio è uno sport, non uno spettacolo e la letteratura lo deve raccontare, non condizionare.
Luis Enrique, durante uno dei suoi Twitch, ha affermato che:
«La prima cosa che andrebbe insegnata ai corsi per allenatori è che il calcio è uno spettacolo. Se vado a teatro e lo spettacolo è noioso, finirà che non vado più a teatro. Così avverrà nel calcio se non si diverte il pubblico».
Ho grande stima di Luis Enrique, come uomo e come allenatore, ma il risultato di questo discorso è che la gente non va più allo stadio perché la Spagna è uscita dai Mondiali e lo spettacolo è finito. Sempre che ci sia stato. Sempre che qualche mortaretto iniziale giustifichi la mancanza di una trama convincente, da parte della Spagna. Meglio: la trama c’è stata ed era complicatissima, il finale drammatico, invece, è stato privo di conclusioni… in porta. Un po’ come il Maestro di arti marziali che agita braccia e gambe, tra urletti striduli, di fronte a un impassibile Bud Spencer che, dopo averlo lasciato fare, lo stende con il più classico degli sberloni.
Al di là delle battute, credo che quello espresso dal Mister di Gijon sia esattamente il concetto per cui il calcio stia rapidamente andando a schiantarsi contro un muro. Il calcio è uno sport, non è uno spettacolo.
É uno sport di squadra, per giunta. Il calcio romantico non esiste, in sostanza. Si genera attraverso il racconto di un romanziere, non della realtà. Pensare il calcio come uno spettacolo è il motivo per cui il calcio, a mio avviso, si sta involvendo. Sì, perché se l’evoluzione porta a fare più di 1000 passaggi per generare un tiro in porta, quando ne basterebbero e avanzerebbero 3, la chiamerei involuzione. Ci siamo infighettiti, qui in Europa. Più precisamente nell’Europa che calcisticamente conta di più. Il radical chicchismo dell’intellighenzia calcistica, infatti, non reputa all’altezza dei salotti nobili chi fa proprie caratteristiche o filosofie più concrete, che sono poi quelle che hanno caratterizzato il calcio, un tempo vincente, dell’Italia. Accadeva quando la Spagna di Guardiola e discepoli vari era reputata terzo mondo calcistico perché giocava, giocava, giocava… e non segnava, né vinceva mai.
Ci siamo abbandonati alla letteratura, di cui il calcio romantico è semplicemente un genere, che non esiste nella realtà. Il calcio è uno sport, non uno spettacolo.
Il romanticismo e la letteratura sportiva – come quella generale, il discorso vale per qualsiasi area tematica – raccontano, in modo eccitante e suggestivo, imprese sportive, appunto, non necessariamente epiche e romantiche. Sono racconti che nascono dal puro amore per la materia, dall’eccitazione e dal conseguente trasporto narrativo. Non è lo sport a dover essere per forza romantico e letterario. Lo sport è sport che, spesso attraverso la narrazione, diventa epico. Un po’ come la vita, un po’ come in Big Fish di Tim Burton: alcune cose sono incredibili se raccontate in un certo modo, ma non sono necessariamente andate così.
C’è chi scrive un libro e se lo tiene nel cassetto. C’è chi registra un disco per riascoltarselo da solo. Chi dipinge per sé stesso. Non esiste chi fa un film per guardarselo da solo in casa. Troppe persone da coinvolgere e troppi soldi da investire. Il cinema nasce per fare soldi e, in qualche caso, diventa arte. Il cinema illude, trasporta in un mondo onirico in cui i sogni si mescolano ai movimenti di macchina. Sogniamo così perché siamo condizionati dal cinema o è il cinema a essere condizionato dai sogni? Sì, Marzullo mi ha condizionato.
Un discorso simile vale per il calcio. Che ha, in più, una componente culturale e sociale decisiva. Il gioco del pallone, infatti, nasce dalla strada, dal popolo. Intrattiene, aggrega, sfoga, fa sognare. Il calcio è uno sport. Lo sport aggrega, intrattiene, sfoga, fa sognare. Crea appartenenza. Fazioni, Club, sfide. Le sfide si fanno per primeggiare con le proprie armi contro l’avversario. É la base dello sport. Lo sport è una piccola guerra. Neanche troppo piccola in realtà.
Per questo il calcio romantico non esiste. Lo sport non è romantico, è una sfida e conta chi vince, non chi partecipa. Roberto Baggio non accetta di aver sbagliato quel rigore perché ha perso e quella ferita non si rimarginerà mai. Poco importa se gli italiani lo hanno perdonato. Cosa c’è di romantico in questa sua sofferenza?
La narrazione. Il significato che vogliamo dargli. Il messaggio finale. Che non è lo stesso del significante: a Baggio di essere un eroe non frega nulla. Ha sbagliato quel rigore e ha perso: Mondiale, Pallone d’Oro e miglior calciatore del mondo. Indipendentemente dal tipo di racconto che si fa di quell’episodio.
Il calcio in Argentina è un concentrato di tante cose che lo spingono verso il fanatismo, ma sono i romanzieri a raccontarlo in modo epico e romantico, non loro. Il calcio inglese è un legante culturale e sociale impressionante, indipendentemente dai risultati del loro calcio. Questo lo ha portato ad essere la Premier League e a primeggiare nel mondo. Non ricorda il discorso sul cinema di poco sopra?
Il calcio nasce spontaneamente, senza nulla di romantico. Il pallone è un gioco quasi istintivo, naturale, primitivo. Come le immagini in movimento che diventano cinema, il pallone diventa calcio. Diventa uno sport per primeggiare e generare profitto, che sia gloria o denaro l’importante è che generi profitto. Nessuno crea una squadra di calcio o un Club per giocare contro il muro o battagliare contro nessuno. Si vuole vincere, primeggiare… possibilmente contro gli acerrimi nemici di sempre. Il calcio serve per dimostrare di essere migliori di qualcosa o qualcuno. Esattamente come qualsiasi disciplina sportiva.
É così dai tempi del Grande Torino. Il calcio romantico non esiste, anche quella squadra fu costruita per vincere, spendendo più soldi degli altri, contravvenendo anche alle regole dell’epoca.
Oggi, però, siamo vittime dello storytelling. Della continua necessità di creare contenuti emozionali. Dev’essere tutto super. Così, ogni gol diventa epico, ogni giocata diventa indimenticabile. Ogni gol viene raccontato come quello di Maradona nel 1986. Così Rosario diventa la città del calcio e Messi siede alla sinistra del Padre… in Rai, anche se non è domenica mattina e a gridare dal microfono non è Bergoglio.
Io non dico che non ci debba essere trasporto. Non penso che non si debba avere passione. Sia che il calcio sia un hobby, che un lavoro. La passione è il motore di tutto. Lo è della mia vita, in cui ho sempre cercato di trasformare quello che amo in lavoro. Penso, però, che ci debba essere realismo, lucidità, senso della misura. Sia che si parli di passatempo, sia che si parli di lavoro.
Amare non significa non riconoscere i difetti del partner. Dipingere la propria metà come un essere perfetto, privo di lati negativi non è amore, è più bisogno di uno psicologo.
Amare qualcuno non significa imporre agli altri la propria visione con la forza. L’amore o la passione per qualcosa dovrebbe stimolare gli altri, affascinarli, spingerli a cercare l’amore e la passione perché è bello vivere certi sentimenti. Non dovrebbe spingere o costringere ogni altro interlocutore a diventare fanatico di qualcosa. Amare il calcio inglese o il calcio argentino non li rende i migliori a prescindere. Non obbliga a imporli come modelli; a narrarli necessariamente come i migliori dei mondi possibili, perché non lo sono.
Non c’è romanticismo nel calcio inglese, in quello argentino, o nel modo di viverlo dei tifosi. Meglio, non ce n’è più o meno di altre parti. É semplicemente cultura.
In Inghilterra c’è la non-league che per noi è romantica, per loro è cultura popolare, abitudine, normalità. Freddo, umido… ci sarà anche qualcuno a cui sta antipatica o che reputa degli idioti quelli che la seguono. In Argentina c’è un trasporto al limite del fanatismo, sono fatti così. Non è romantico, è così. É chi ama ad avere la meraviglia negli occhi e il romanticismo nel racconto, la realtà è solo la realtà e non è poi così diversa da nessuna parte.
Per questo sostengo da anni che il calcio romantico non esista. Esiste il pallone, che è una passione. Il calcio che è uno sport, di squadra. Esiste il romanticismo che è solo un genere letterario che va di moda applicato allo sport, ma che non dovrebbe condizionare la realtà come una comunissima PlayStation. Invece lo fa e ha fatto perdere traccia della realtà, nel calcio come nella vita. Perché il calcio è uno sport non uno spettacolo. Non rappresenta un sogno perfetto, ma la società con tutte le sue contraddizioni.