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Roberto Gotta

Roberto Gotta, nomade per raccontare lo sport

Avete presente quando vi appassionate a qualcuno che non conoscete grazie al suo lavoro? Spesso quando lo incontrate, vi delude. A me con Roberto Gotta non è capitato. Lo seguo dai tempi del Guerin Sportivo e di American Superbasket.

Ho avuto il piacere di incontrarlo, qualche anno fa, quando già ero nel mondo del giornalismo, sportivo nello specifico. Un caffè e quattro chiacchiere sono bastati per scoprire che, dal vivo, è meglio anche di quello che scrive. Abbiamo costruito un bel rapporto, almeno credo, basato su interminabili messaggi vocali che ci scambiamo, ascoltiamo e a cui rispondiamo quando abbiamo tempo. Quando ci pare. Senza una logica precisa. Come piace a entrambi. Ammetto che c’è molto da imparare ogni volta e di questo lo ringrazio pubblicamente.

Roberto Gotta è un eccezionale giornalista, scrittore, autore, narratore. Uno di quelli che quando racconta qualcosa è perché l’ha vissuta, studiata, approfondita, metabolizzata. Un aspetto molto raro in un mondo fatto della rapida superficialità del web.

Oggi Roberto Gotta è autore degli speciali legati al calcio inglese di Sky, quelli condotti da Paolo Di Canio per intenderci. È stato troppo poco spesso seconda voce per alcune telecronache di Premier League, prima che la pandemia vietasse le telecronache a due in cabina di commento: arricchirebbe molto il prodotto, questo è un mio parere personale. Roberto è la voce ufficiale degli sport americani, da anni, per varie realtà, oggi lo è per DAZN. È anche autore di alcuni dei libri più belli mai scritti sullo sport in Italia.

Roberto Gotta è un instancabile piccione viaggiatore dedicato alla passione per lo sport. Viaggia, raccoglie storie e le riporta a noi assetati di sapere, nel suo inconfondibile stile. Da molto prima che lo storytelling diventasse di moda.

Sulla tua pagina Youtube racconti i tuoi numerosi viaggi legati al mondo dello sport. Viaggi che hai sempre fatto per lavoro ma anche per piacere personale.

Roberto Gotta: «Ho viaggiato molto, sì. La mia ‘fortuna’ è stata quella di non avere interessi per vestiti, auto, vacanze, pranzi o cene: tutto quello che guadagnavo lo reinvestivo in conoscenza. Dunque mi sono mosso praticamente sempre per lavoro o per conoscere luoghi che poi avrei dovuto raccontare. Non ho tenuto conto del numero di viaggi che ho fatto, ma ho contato ogni volo: 998. Esclusi i 2 o 3 che ho fatto guidando personalmente un ultraleggero: ho preso il patentino nel 1999 ma non l’ho poi potuto mantenere, però mi sono tolto la soddisfazione. Alcuni anni ho fatto 40, anche 50 voli, andando in America anche 4 o 5 volte. Come inviato di American Superbasket o per la NFL. Studiavo giocatori della NBA, seguivo le finale dei campionati di College e, molto spesso, ho avuto la fortuna di seguire il Super Bowl».

Quindi hai deciso di sfruttare la tua professionalità per raccontare le tue esperienze attraverso il materiale, soprattutto fotografico, che hai raccolto in questi oltre 30 anni di viaggi.

Roberto Gotta: ««Esatto. Mio padre era un grande appassionato di fotografia, quindi sfruttando quello che avevo in casa ho preso l’abitudine di fotografare tutto, soprattutto i dettagli. Ho tantissime foto e riordinandole ho pensato che potesse essere interessante raccontare le storie che ho vissuto. Viaggiare quasi sempre in modo frugale, a spese mie, mi ha permesso di avere il punto di vista del tifoso comune. Certo, quando andavo in America per il Super Bowl avevo l’albergo insieme ai colleghi, ma per il resto ho voluto mantenere la mia indipendenza per poter osservare la realtà come davvero è. Questo per me è l’unico modo per raccontare cose particolari. Che sono quelle che mi interessano».

Immagino che questo tuo modo di viaggiare abbia fatto nascere anche qualche episodio esilarante…

Roberto Gotta: «Bé, sì. Ho rischiato di essere arrestato in Mississippi. Vado piuttosto veloce in macchina, ma in quel caso sono stato ingannato dalle auto locali che andavano alla mia stessa velocità però tutte assieme, quasi in gruppo. Quando, però, poco alla volta sono uscite dall’autostrada sono rimasto solo io a correre e la Polizia mi ha subito – giustamente – fermato. Era il 2002, mi trovavo negli Stati Uniti per il Super Bowl che inaugurò la dinastia dei Patriots. Ero lì per mio conto e ho colto l’occasione per intervistare un futuro giocatore NBA che poi abbiamo ritrovato anche a Bologna… ma racconterò tutto in un mio video e quindi non svelo di più. Dico solo che dopo l’incontro con la Polizia ho proseguito a 30 km orari, curvo sul volante in stile Fantozzi (risata, N.d.R.).

All’epoca non c’era internet con lo sviluppo odierno e quindi ho davvero tanto materiale e ricordi che non ho mai condiviso, se non con i conoscenti. A mia moglie non interessano granché, se non quando fanno parte di aneddoti suscitati da film o serie tv: considero una fortuna che non sia interessata allo sport, ci manca solo che anche in casa se ne debba parlare».

Come mai questa scelta di viaggiare per conto tuo anche in caso di lavoro?

Roberto Gotta: «Non sono un giornalista che vive di contatti perché – può sembrare strano – sono in imbarazzo quando devo presentarmi alle persone che non conosco; e infatti non mi considero un giornalista in senso classico perché non amo neanche fare interviste.

Non volendo avere contatti, l’unico modo di conoscere è muovermi, andando a vedere con i miei occhi. Perché ognuno di noi ha un modo diverso di vedere le cose e ogni prospettiva, meglio se preceduta da conoscenza, ha un valore.

Poi, se non ci sono obblighi, spesso non prenoto neppure l’albergo perché, finita la partita, salgo su un treno o su un aereo e mi sposto per raggiungere un’altra meta, per seguire un altro evento. Sfrutto ogni momento dei miei viaggi.

Una volta, ricordo, dopo un volo interno, su suggerimento di una hostess, ho finto di dimenticare il bagaglio in aeroporto, perché attendendolo non avrei potuto arrivare in tempo al palazzetto dove avrei dovuto seguire una partita. Le partite si vedono e sentono meglio dagli spalti perché le tribune stampa negli stadi hanno spesso le vetrate che smorzano i suoni, ma la tribuna stampa mi serve per potermi portare dietro le mie cose senza doverle lasciare in giro, ottimizzando i tempi».

È vero che sei il giornalista non americano che ha visto dal vivo più Super Bowl?

Roberto Gotta: «Potrebbe essere, ma non conosco tutti i britannici e i messicani, quindi potrebbe essere… ma non ci giurerei (risata, N.d.R.). In Italia probabilmente sì, ma non è una competizione a chi ne ha visti di più, sia chiaro, anche perché non ci sono meriti personali.

Nel 2012 e 2015 ho fatto la telecronaca da Milano e ho scelto di andare là fino al giorno prima della partita, seguire conferenze stampa, presentazione e tutto il resto, per poi tornare in Italia e fare il commento dallo studio potendo almeno raccontare il clima, mentre negli ultimi quattro anni proprio non mi sono mosso. E non certo per decisione mia. 

Nel 2011 ci fu un episodio particolare. L’emittente per cui lavoravo non mi aveva ancora pagato un euro in cinque mesi. Dunque a fine gennaio mi sono rifiutato di lavorare ancora gratis e sono partito, ma partendo così tardi e dunque chiedendo un accredito in deroga ne ottenni solo uno valido per la sala stampa. Interna allo stadio (dei Dallas Cowboys) ma separata dal campo da una parete. Dopo qualche azione capii che il boato proveniente da pochi metri più in là anticipava le immagini del televisore della sala stampa e che dunque seguire la partita sarebbe stata un’esperienza sgradevole.

Ci fu un colpo di fortuna: lo stadio, inaugurato da poco tempo, aveva un problema, alcuni settori cioè erano stati chiusi il giorno della partita. Gli spettatori che avevano un biglietto per quei settori furono fatti accomodare, per una volta in violazione delle rigide norme americane, sulle scalinate, e io approfittai del disordine e della distrazione degli addetti per aggregarmi ad alcuni di loro e seguire la partita con vista campo. Per poi trovare un posto libero in tribuna stampa per il secondo tempo. Riuscii dunque a seguire dal vivo anche quel Super Bowl! Perché la regola scherzosa, nel manipolo di giornalisti italiani che fa queste cose, è che devi vederlo dal vivo, altrimenti non vale nel conteggio! (risata, N.d.r.)».

Quanti sono i Super Bowl che hai visto dal vivo?

Roberto Gotta: «Dunque, dal 1988 al 1991; poi dal 1999 al 2011. Ho saltato il 2012. Ho visto il 2014, ho saltato il 2015. Poi ho ripreso per il 2016, 2017 e il 2018. I due che ho saltato sono quelli per cui sono dovuto tornare in Italia, con conseguente presa in giro dell’addetto stampa europeo: tutti arrivavano e io ripartivo, sembravo il tizio che in autostrada va contromano».

Sei un esperto incredibile di calcio inglese e di sport americani, com’è nata questa tua passione?

Roberto Gotta: «Non sono mai stato un adolescente molto socievole. Il sabato pomeriggio stavo molto in casa a leggere, ad ascoltare la radio, a guardare la televisione. Mio padre aveva una radio molto bella che, puramente per caso, riceveva molto bene la BBC. Ecco che, quindi, il sabato pomeriggio avevo la possibilità di seguire tutte le partite della First Division (oggi Premier League, N.d.R.). Ho imparato così l’inglese. Andavo allo Stadio a vedere il Bologna ma non ho mai amato il tifo italiano, le Curve, ecc. ecc. Non amavo questa separazione tra tribuna e Curva, non capivo perché uno della curva fosse automaticamente considerato tifoso più caldo di uno della tribuna.

In Inghilterra, invece, era tutto uguale, almeno all’apparenza. Le Firm si scontravano fuori dallo stadio facendo i loro macelli, ma nel momento in cui si giocava, dentro lo stadio l’apparenza era quella che fossero tutti uguali, che non esistesse un settore più caldo, come ho poi visto confermato dal vivo. Ricordo che a 9 anni vidi Wembley per Polonia-Inghilterra in Tv (quando la Polonia eliminò dalla corsa ai Mondiali nel 1973, N.d.R.). Rimasi affascinato dagli spalti in ombra, coperti, grigi – e non solo perché le immagini erano in bianco e nero; da quei canti in stile gregoriano che si stagliavano verso il cielo. Mi sembrava di assistere a un rito quasi religioso.

Ho questo ricordo. 1974, finale di Coppa d’Inghilterra, Newcastle-Liverpool. Servizio di calcio internazionale in tv. Presentazione solenne, prato perfetto… all’inglese appunto (risata, N.d.R.), tifosi con sciarpe e colori brillanti sullo sfondo degli spalti: «Che meraviglia!», ho pensato. Nel 1975, poi, ho visto la finale in diretta sulla Tv svizzera e da lì è scoccata la scintilla definitiva. Ho cominciato quindi a seguire ogni sabato pomeriggio le partita alla radio. Andavo poi alla messa delle 18.30 e passavo tutto il tempo – lo ammetto… – a ripassare mentalmente i risultati, sperando di aver capito tutto correttamente dall’intonazione tipica dei telecronisti durante la lettura dei risultati. Scrivevo lettere alle società e alle federazione per ricevere materiale e leggerlo. È andata così fino ai primi viaggi e via via ai libri che ho scritto».

Gli sport americani invece?

Roberto Gotta: «Bé, il basket perché a Bologna c’era tanto basket. Ricordo che un giornalista, Giorgio Gandolfi, insieme ad altri, aveva comprato dei nastri con alcune partite che proiettava in alcuni cinema della città. Ricordo di aver visto un volantino. Erano partite di un torneo di secondo piano, ma per l’epoca erano cose fantasmagoriche da vedere.

Lo spettacolo dello sport americano mi affascinò subito, a Bologna c’è un’ottima squadra di baseball e quindi cominciai a seguire anche loro. Ecco che nel 1982, su Canale 5, vidi il secondo Super Bowl e la fascinazione fu la medesima che ebbi, circa dieci anni prima, per il calcio inglese: stadio, colori, caschi, atmosfera.

Cominciai ad andare a vedere le due squadre locali e finii per giocare in una terza, di livello minore; con la quale fummo subito promossi in Serie A, giocandoci poi vari campionati. Abitavo a 500 metri dallo Stadio di football americano di Bologna. Ci andavo a piedi. Lo stesso per il baseball, il cui stadio distava forse un chilometro. Coincidenze favorevoli. La mia vita del resto è stata costellata di coincidenze che mi hanno portato a fare quello che faccio da più di 30 anni. Credo. Ho perso il conto».

Quindi la passione per lo sport di Roberto Gotta nasce dall’estetica?

Roberto Gotta: «Esatto. Amavo lo spettacolo, nel senso di spettacolo per i sensi. Il divertimento. Qui da noi è sempre stato tutto molto più bloccato. Il calcio inglese era molto più spettacolare. Ho sempre trovato la nostra Serie A più seria, meno colorata; tattica e bloccata. Là c’erano i tifosi dietro la porta. Partecipavano. Una buona dose di casualità mi ha portato a farne un lavoro. Se fossi stato un buon atleta avrei fatto sport, invece sono finito a raccontarlo.

Mandai una lettera al direttore di Superbasket, che mi rispose di scrivergli in futuro. Così, un anno dopo, mi pubblicò una fantasia estiva che trovai il coraggio di spedirgli. Capii che forse non era impensabile farlo come mestiere, anche se fu solo anni dopo che venni a sapere che nel periodo estivo lui avrebbe pubblicato qualsiasi cosa decente pur di riempire la rivista e quindi non è che la pubblicazione del mio sproloquio volesse dire chissà cosa. È cominciata così e ancora oggi fatico a trovare una logica nello sviluppo della mia vita lavorativa, o carriera che dir si voglia ma è una parola che mi sa di cinico.

Il primo Super Bowl lo vidi grazie all’accredito di un caro amico, per pura casualità. Era il 1988. Tornai nel 1989, nel 1990, nel 1991: e in quell’anno, dopo il Super Bowl, decisi di andare a Orlando dove giocavano i Lakers. Alle fine della partita, con una faccia tosta incredibile, chiesi di poter intervistare Magic Johnson. Permesso accordato. Tornato in Italia, trascrissi tutto e mandai il pezzo a I giganti del basket, a Milano. Avevo allegato un paio di foto, rarissime all’epoca. Mi pubblicarono il pezzo.

Per alcune vicissitudini la sede della rivista venne trasferita a Bologna, loro si ricordarono di me e così iniziai. Qualche tempo dopo la testata fu acquisita dal gruppo di Superbasket e io passai alla redazione, rivale storica, insieme a tutto il pacchetto. Rimasi lì fino ad arrivare a fare il direttore, anche in quel caso piuttosto casualmente. Pensavo di andare via, stufo per 14 anni di routine, o di prendermi un’aspettativa, e invece uscii dall’ufficio del personale con la prospettiva di fare il direttore di lì a due mesi… vedi quante coincidenze?».

…e il calcio inglese?

Roberto Gotta: «Un’altra coincidenza. Il Guerin Sportivo era della stessa casa editrice de I giganti del basket. Un giorno, in mensa, chiesi al responsabile calcio estero di poter scrivere di calcio inglese. Dopo 18 anni di studio e passione mi sentivo pronto anche per occuparmene, e mi rendo purtroppo conto che oggi c’è chi pensa di poterlo fare dopo 18 mesi, o forse 18 giorni, e di recente è successo anche per la NFL e il Super Bowl, alla faccia di chi studia per una vita. Ci ho sempre tenuto a sapere le cose e loro cercavano qualcuno che le cose le sapesse davvero. Ho cominciato così, ma solo dopo che quel responsabile mi fece capire alcune procedure importanti che ancora non avevo capito». 

Io ti conosco più per il Guerin Sportivo infatti. Da ragazzino ero un grande appassionato di calcio internazionale ed era l’unica rivista che se ne occupava. Ho imparato anche la geografia grazie al Guerin Sportivo.

Hai scritto parecchi libri. So che ne stai scrivendo uno nuovo. L’ultimo che hai realizzato è dedicato a Tom Brady. Le Reti di Wembley, però, è considerato il volume più bello mai scritto in Italia sul calcio inglese.

Roberto Gotta: ««Lo proposi nel 1999 a un editore toscano ma lui voleva un romanzo da trasporre in un film, mentre io non sono mai stato bravo a scrivere di fantasia, ho sempre avuto un approccio storico. E così, nel 2003, grazie a Libri di Sport ho trovato il modo di realizzare un volume che si ispirava proprio alla fascinazione di cui ti ho raccontato poco fa. Le reti di Wembley, appunto. Uno di quei dettagli estetici che mi aveva colpito. Ci tengo a sottolineare che è un libro di ’nostalgia’ ma non di romanticismo.

Il mio sport non è per nulla romantico, anzi è fatto di sangue, sudore, lacrime, lividi, fango. Non poesia ma sensazioni forti. Il calcio romantico è un’invenzione buonista che non mi appartiene, certo non da adulto». 

Le Reti di Wembley è…

«Una passeggiata per gli stadi di Londra, alla ricerca di aneddoti, ricordi, piccole storie, sensazioni, il tutto in rigoroso disordine, come se si fosse a tavola con amici appassionati di calcio inglese e sorgessero in continuazione curiosità e domande senza regola e senza criterio».

Un po’ come in questo caso: un’intervista veloce che si è trasformata in una lunga chiacchierata. È stata poi la volta di Addio West Ham: Il nostro ultimo anno ad Upton Park.

Ti sei abbonato agli Hammers, l’ultimo anno prima della demolizione dello Stadio e del conseguente trasferimento della squadra, e hai raccontato, a tuo modo, dal punto di vista dei tifosi, l’ultima stagione degli Irons nello storico Boylen Ground.

Roberto Gotta: «L’idea iniziale fu semplicemente: vorrei esserci all’ultima partita. Per puro piacere personale, non per tifo. Non si può tifare una squadra da un’altra città, da un’altra nazione, per come sono fatto io. Comunque: ho poi pensato che all’ultima partita, ci sarebbe voluto essere mezzo mondo e sarebbe stato difficilissimo trovare un biglietto. Abbonarsi sarebbe dunque stato l’unico modo e così ho fatto. Solo qualche tempo dopo, diciamo verso metà luglio, ho pensato che avrei potuto raccontarlo. Mi sono rivolto a Stefano Olivari di Indiscreto, l’idea gli è piaciuta ed ecco che è nato il libro».

Le hai viste tutte?

«Tutte tranne una. La prima vittoria casalinga, a metà settembre. Tanto che ho pensato di portare sfortuna, ma in realtà non credo a queste scemenze. Invece poi è stata una stagione molto migliore delle previsioni. È stata un’esperienza stranissima. Irripetibile per ovvie ragioni: lo stadio non c’è più.

Incredibile perché ogni 15 giorni mi sedevo in un posto lontanissimo da casa mia ma ero a casa, in un certo senso. Spesso poi andavo e tornavo da Londra in giornata. Molto bello devo dire».

Dicono che il calcio si stia americanizzando per cercare più business, soprattutto dopo la pandemia, che ha messo in grave crisi il sistema. Cosa ne pensa il Roberto Gotta dei due mondi?

Negli Stati Uniti lo sport non è business più che da noi, è l’impostazione a essere diversa. Più sincera, se vogliamo: da loro un Frosinone in Serie A non andrebbe perché sarebbe troppo inferiore economicamente alle altre. Ecco perché le leghe sono a numero chiuso e chiunque ne faccia parte ha la medesima probabilità di vincere il titolo. Vendono un prodotto, il prodotto sono le partite e quindi fanno qualsiasi cosa perché questo prodotto venga consumato.

É tutto molto controllato perché nessuno vuole rischiare che saltino franchigie per problemi economici. Quindi si perde il concetto di appartenenza delle proprietà ma il sistema regge, in quanto è il sistema stesso a garantire il successo delle squadre e non il contrario. Diciamo che il timone è saldamente nelle mani delle leghe e questa in genere è una garanzia».

È possibile che questo sistema sia il futuro anche del calcio europeo, che oggi appare destinato a non reggere più per come siamo abituati a vederlo?

Roberto Gotta: «Il problema è questo. A Bologna il tifoso medio non vede l’ora che ci sia Bologna-Cesena, Bologna-Fiorentina, ecc. ecc.; oppure Bologna-Juventus per arrabbiarsi del fatto che tre quarti dello stadio tifi Juventus anche a Bologna. Qui si crea la spaccatura. Bellissimo il campanilismo, ma a un tifoso della Juventus non interessa vedere Juventus-Bologna, vuole vedere Juventus-Real Madrid. Quindi la mentalità è cambiata e può essere che queste due velocità si vadano a fondere. Quindi il Bologna non potrà più competere con la Juventus e si ritroverà a giocare sempre con le sue pari livello, mentre la Juventus si troverà a giocare ogni anno con Real Madrid, Bayern Monaco, ecc. ecc. Questa spaccatura è possibile che si crei nel prossimo futuro.

Personalmente non amo molto l’attuale struttura europea. Non amo che ogni anno dai sorteggi delle Coppe emergano sempre gli stessi match, che non ci siano più le outsider di un tempo. Quindi, se deve essere tutto così monotono, tanto vale che si crei una Superlega e che si giochino ogni anno gli stessi match: mi basterà non guardarli, così come già da tempo ho smesso di guardare le partite di Champions League in cui non ci siano squadre inglesi, e solo perché professionalmente sento il dovere di farlo.

Quel concetto un po’ da Playstation. l pubblico sono i ragazzini, che oggi giocano ogni pomeriggio online Manchester City-Paris Saint Germain e che spingeranno verso questa direzione. Noi avevamo un’altra mentalità, arriviamo da un’altra epoca. Un’epoca in cui estetica e colori erano più importanti di tutto il resto e il pomeriggio si giocava a Subbuteo, da soli».